L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Trascritto per inetrnet da Mishù, maggio 2001


Capitolo dodicesimo
"IL NEMICO E’ IN CASA NOSTRA"
1965-1968

Nota introduttiva
Cronologia
"Il nemico è in casa nostra"
La crisi del capitalismo cecoslovacco
L'accordo FIAT-URSS è un episodio dell'integrazione del capitalismo europeo
Attualità della via rivoluzionaria (nel 50' dell'Ottobre)
Contro la guerra, rivoluzione!
L"'interventismo di sinistra" a fianco della borghesia araba
Lotta internazionalista contro i blocchi militari
Svalutazione della sterlina e socialdemocrazia al servizio del capitale
Le basi proletarie ed internazionaliste della strategia rivoluzionaria
La dimensione internazionale della crisi francese

Nota introduttiva
Dicembre 1965: esce il primo numero di "Lotta Comunista" con l'editoriale che dà il titolo a questo capitolo. Esso riprende la denuncia leninista dell'imperialismo alla vigilia della prima guerra mondiale e, mentre incombe la guerra nel Vietnam, afferma che la vera lotta contro l'imperialismo deve essere combattuta dal proletariato metropolitano e contro il nemico di casa propria. Gli articoli e i saggi che seguono - siano essi dedicati alla crisi del capitalismo cecoslovacco, all'accordo FIAT-URSS, alle posizioni dell'"interventismo di sinistra" nella guerra del Medio Oriente, ai blocchi militari, fino all'analisi della crisi francese del 1968 nelle sua dimensione internazionale - seguono il percorso della logica obiettiva dei fatti. Essi si caratterizzano per la denuncia della situazione del proletariato nel mondo, in un mondo dove ormai predominato i rapporti capitalistici di produzione. Malgrado il perdurare della fase controrivoluzionaria, le forze proletarie per la rivoluzione sono diventate immense: occorre però dare loro quella coscienza rivoluzionaria che l'opportunismo socialimperialista, col pacifismo piccolo borghese e con le mistificazioni delle vie nazionali al socialismo, ostacola.

Con l'affermazione di "Lotta Comunista" come organizzatore collettivo dei gruppi leninisti, la denuncia dell'imperialismo si impone come militanza politica internazionalista. La denuncia che "in nessun paese esiste una economia socialista come vorrebbero far credere i mistificatori filosovietici e filocinesi", mentre "in ogni paese esiste un proletariato che non ha interessi contrastanti con quello degli altri paesi", riconferma l'attualità della via rivoluzionaria, in quanto "l'estensione del capitalismo ha fatto dell'internazionalismo una realtà indistruttibile". Ecco perché l'interesse per la crisi cecoslovacca riguarda la sua natura capitalistica e precede di due anni la cosiddetta "primavera di Praga". Se il movimento degli intellettuali a Praga del 1967-1968 ebbe la possibilità di estendersi, fino a comprendere strati operai, è perché la crisi non era soltanto sovrastrutturale. La Cecoslovacchia, come paese più maturo, più industrialmente sviluppato del blocco sovietico, era stato il primo ad accusare un rallentamento di quei ritmi di sviluppo che lo stalinismo aveva esaltato a riprova dell' "edificazione del socialismo". Nel 1965 tali ritmi erano addirittura regrediti, mettendo in luce la persistenza di un ciclo economico capitalistico e soprattutto le contraddizioni tra piano nazionale e anarchia del mercato mondiale. Le misure economiche prese allora per il rilancio produttivo (maggiore responsabilizzazione delle direzioni aziendali, lettura capitalistica dei bilanci delle imprese, giudicate in base ai profitti realizzati e non alle percentuali della produzione, e maggior legame dei salari alla produttività e al livello del profitto reso) avevano aggravato le condizioni di sfruttamento della forza lavoro, staccando via via le masse operaie dalle illusioni prodotte dall'ideologia della pianificazione.

Con lo stesso metro dell'internazionalismo, usato in rapporto all'evoluzione dei paesi a capitalismo maturo, viene commentato l'accordo FIAT-URSS del 1966. Esso presenta l'occasione per spiegare nei termini dei mutamenti intercorsi nei rapporti economici tra le due aree europee, cioè col processo d'integrazione tra mercato dell'Europa occidentale e mercato dell'Europa orientale, la proclamata autonomia del PCI dallo "Stato guida" sovietico. Il giudizio relativo a quel primo episodio dell'integrazione del capitalismo europeo assume adesso il suo vero valore di denuncia. Gli sviluppi assunti dal processo di integrazione, con una sempre maggiore "divisione internazionale del lavoro" (è noto, ad esempio, che le vetture torinesi montano i motori prodotti a minor prezzo dagli operai polacchi), hanno fatto del fenomeno socialsciovinista, allora in prospettiva, un fattore importante nell'attuale crisi di ristrutturazione. Allora gli esponenti del PCI si limitavano a indicare nell'accordo per "Togliattigrad" un esempio coesistenziale per la stabilizzazione degli interessi capitalistici europei, adesso devono fare di più, assumendosi delle responsabilità dirette nella cogestione di questi interessi.

All'opportunismo, come fattore di corruzione del movimento operaio, fanno da controcanto varianti confusionarie, pseudorivoluzionarie, che rivelano la loro natura piccolo borghese quando sono messe alla prova dell'internazionalismo. È il caso dei gruppi "interventisti" sorti in appoggio alla borghesia araba in occasione della guerra mediorientale, contro i quali venne presa posizione nel 1967. Oggi che i giovani capitalismi del Medio Oriente si sono consolidati fruendo dell'inevitabile "interconnessione" con i vari imperialismi (giocando su due tavoli o ribaltando le alleanze, come nel caso dell'Egitto), bisogna dire che I' "interventismo" pseudorivoluzionario non solo favorisce l'opportunismo ma lo rafforza sul terreno che gli è proprio, quello socialsciovinista della partecipazione agli accordi di collaborazione tra imperialismo di casa e giovani capitalismi.

Anche di fronte al sistema delle alleanze militari, la prova dell'internazionalismo è sempre determinante nello smascherare l'opportunismo. Anni fa la parola d'ordine "Fuori dalla Nato" non significava di per sé una posizione antimperialista. Precisando le ragioni di una lotta internazionalista contro i blocchi militari determinati dalla "coesistenza diseguale" tra USA e URSS, noi affermavamo che tale lotta doveva essere fondata su una linea chiara ed inequivocabile di autonomia di classe, capace di sottrarre "il proletariato alle manovre dei vari gruppi imperialistici nella loro lotta, nelle loro alleanze, nei loro immancabili capovolgimenti di alleanze". Possibilità di capovolgimenti dovevano essere messe in conto anche per l'Italia, sebbene le condizioni dell'imperialismo italiano non potevano far pensare ad un suo ruolo autonomo sul tipo di quello francese. Dopo che la crisi di squilibrio dell'imperialismo italiano ha portato l'opportunismo ad accettare anche il suo sistema di alleanze, quella parola d'ordine è stata abbandonata.

Conclude il capitolo il saggio dedicato al "maggio francese" del 1968. Quell'avvenimento è purtroppo diventato un punto di riferimento per le sagre dello spontaneismo, mentre i suoi significati sono andati oltre i limiti del "movimento" espresso da quella crisi. Il "movimento" credeva di portare "l'immaginazione al potere", mentre mancava totalmente di immaginazione nel cogliere i significati e le dimensioni internazionali di quella crisi. Un partito rivoluzionario vi doveva vedere la sconfitta dell'ideologia del "capitalismo organizzato", capace di controllare le sue crisi, vi doveva vedere la sconfitta dell'opportunismo, costretto ad assumere il ruolo di "partito dell'ordine". Vi doveva vedere la sconfitta delle ideologie pseudorivoluzionarie, filocinesi, quelle che predicavano "l'accerchiamento delle città da parte delle campagne" e soprattutto vi doveva vedere l'inizio di una crisi imperialista a livello mondiale. Quella crisi, tuttora in corso, in quanto crisi di ristrutturazione, non poteva e non può ancora sbloccare la fase controrivoluzionaria, essa ha però fatto fare un salto di qualità alle avanguardie rivoluzionarie per la ripresa dell'internazionalismo proletario.

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Cronologia
1963
Germania Federale-Francia. Il 22 gennaio a Parigi viene concluso il trattato franco-tedesco che avrebbe dovuto condurre alla costituzione di un direttorio Parigi-Bonn sull'Europa dei Sei, con ruolo preponderante per la Francia poiché la Germania non ha né libertà piena in fatto di armamenti, né in fatto di politica estera. Il Bundestag approverà però il Trattato premettendovi un preambolo che lo svuota dal suo contenuto, in quanto riafferma la volontà della Germania di continuare la costruzione dell'Europa insieme alla Gran Bretagna, nello spirito di fedeltà all'alleanza atlantica.

Germania Federale. 10 ottobre: Adenauer rassegna le dimissioni da Cancelliere, gli subentra Ludwig Erhard. Nelle elezioni del 1961 la coalizione CDU-CSU aveva perso la maggioranza assoluta che deteneva dal 1957 e Adenauer, dopo lunghi patteggiamenti, si era accordato coi liberali. Nel 1962 l'affare Spiegel aveva costretto il Ministro della difesa J. Strauss ad abbandonare la carica. Adenauer annuncia la decisione di ritirarsi entro il 1963. In sostanza la crisi politica apertasi clamorosamente nel 1962 è l'espressione dello scontro all'interno della borghesia tedesca, tra chi vuole continuare la politica di stretta alleanza con gli USA e chi, invece, vede nell'alleanza privilegiata con la Francia la possibilità di trattare più liberamente con ciascuno dei due blocchi. In altre parole si ritiene che la chiave dell'unificazione delle due Germanie non stia esclusivamente nell'alleanza atlantica, ma anche a Mosca.

Francia. 28 gennaio: De Gaulle, dichiarando il suo veto all'ingresso della Gran Bretagna nel MEC, fa fallire il progetto atlantico kennediano. L'iniziativa di De Gaulle rappresenta la risposta all'incontro di fine dicembre fra Kennedy e MacMillan alle Bahamas, nel quale il generale ha visto la sottomissione britannica agli USA.
Giugno. Le forze francesi vengono ritirate dalla NATO e dalla SEATO, pur continuando a partecipare ad alcune operazioni.

CEE. 20 luglio: viene firmato a Yaoundé (nel Camerun) la Convenzione che associa 18 paesi africani alla CEE.

Vertici. 5 agosto: Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna firmano, a Mosca, il Trattato che vieta, parzialmente, gli esperimenti atomici nello spazio atmosferico, extra-atmosferico e nel sottosuolo. Francia e Cina non aderiscono al Trattato.

Nigeria. Il 1° ottobre viene proclamata la Repubblica della Nigeria.

Africa. 25 maggio: ad Addis Abeba 35 capi di Stato africani adottano la "carta dell'unità africana".

Stati Uniti. Giugno: viaggio in Europa del Presidente Kennedy; a Berlino Ovest, di fronte al "muro" che divide in due zone la città, si proclama cittadino berlinese e ricorda la garanzia della difesa americana sulla Germania Occidentale. 22 novembre. Uccisione, a Dallas, del Presidente americano john F. Kennedy; gli succede Lyndon B. Johnson.

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1964
Francia. Il 27 gennaio la Francia riconosce la Repubblica Popolare Cinese.
16-27 marzo. Viaggio di C. De Gaulle in America Latina, in chiara funzione antistatunitense.
15 giugno. Le ultime truppe francesi lasciano l'Algeria, eccettuate alcune basi militari nel Sahara.

Tanzania. 24 aprile: dalla fusione di Tanganika e Zanzibar nasce lo Stato della Tanzania.

Cina. Il 16 ottobre la Cina fa esplodere la sua prima bomba atomica.

Unione Sovietica. 14 ottobre. Nikita Kruscev viene destituito dalle sue funzioni, e viene sostituito, alla carica di Segretario del partito, da Leonid Breznev, e di Primo Ministro, da Alexei Kosygin.

Gran Bretagna. 15 ottobre: vittoria dei laburisti alle elezioni: Harold Wilson è il nuovo primo Ministro.

Stati Uniti. 2-5 agosto. Incidenti nel golfo del Tonchino fra Stati Uniti e Nord Vietnam. Il Presidente americano viene autorizzato dal Parlamento statunitense ad utilizzare la forza militare.
3 novembre. Lyndon B. Johnson viene eletto alla Presidenza.

Vertici. 4 maggio. Si apre a Ginevra la Conferenza del GATT sui problemi delle tariffe. È l'inizio dell'offensiva commerciale americana, chiamata "Kennedy Round". L'obiettivo è ottenere una riduzione del 50% di tutte le tariffe doganali. Partecipano alle trattative 51 paesi, tutti quelli che aderiscono al GATT. L'accordo, raggiunto nell'estate del 1967, prevede una riduzione del 50% per una vasta gamma di prodotti industriali, mentre nel campo agricolo, dove i negoziati sono stati particolarmente difficili, si è addivenuti solo ad un accordo di base sui prezzi minimi e massimi del grano, la cui importanza nel commercio internazionale è di grande rilievo.

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1965
Vietnam. 7 febbraio: iniziano le incursioni aeree americane sul Nord Vietnam.

5 marzo. L'Unione Sovietica fornisce al Vietnam del Nord missili terra-aria per contrastare le incursioni aeree americane.

India. 24 agosto. Inizia l'offensiva indiana nel Pakistan orientale, appoggiato dalla Cina.

Indonesia 1° ottobre. Colpo di Stato militare; mezzo milione di persone vengono uccise.

CEE. 30 giugno. Fallimento dei negoziati sul finanziamento della politica agricola comune; la Francia decide di sospendere la sua partecipazione al Consiglio dei Ministri CEE per sei mesi.

NATO. Autunno. C. De Gaulle annuncia la decisione di porre termine, prima della scadenza del 1969, all'integrazione delle forze militari francesi nella NATO. Vi sono tensioni all'interno dell'alleanza atlantica. Nel 1962, la decisione americana di non proseguire il programma di missili terra-aria Skybolt a testata nucleare aveva fatto precipitare la crisi. Kennedy aveva offerto in cambio alla Gran Bretagna i missili Polaris che avrebbero dovuto integrarsi nella costituenda forza nucleare multilaterale. La Gran Bretagna accettava la proposta. Le discussioni sulle forme e i meriti di una forza multilaterale o multinazionale continuarono fino alla fine del 1964 per fallire poi di fronte alla volontà inglese di conservare il suo deterrente atomico nazionale e a quella tedesca di arrivare, sotto questo aspetto, ad una totale uguaglianza di diritti. Il progetto è così affossato come lo sarà, nel 1965, quello relativo alla creazione di comitati di esame della strategia nucleare.

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1966
Vietnam. 31 gennaio. Riprendono i bombardamenti americani sul Nord.

2 febbraio. De Gaulle denuncia la politica americana in Vietnam.

23 luglio. Il Consiglio ecumenico delle Chiese condanna l' "escalation" americana in Vietnam.

13 dicembre. Iniziano i bombardamenti americani sulla città di Hanoi.

Francia. 6 marzo. La Francia impone agli americani di evacuare le basi e i depositi installati sul territorio francese entro il 1° aprile dell'anno successivo. Resteranno l'oleodotto per il rifornimento della VII Armata di stanza in Germania e la partecipazione francese alla rete europea di copertura radar. La Germania acconsente alla permanenza sul suo territorio delle forze francesi con uno statuto che assicura loro totale autonomia d'azione in caso di conflitto. Nell'ottobre dell'anno successivo De Gaulle enuncerà la definizione di un sistema difensivo "tous azimuts", cioè multidirezionale. Ciò si traduce nella palese manifestazione della volontà francese di dissociarsi dai blocchi.

3 luglio. Viene sperimentata in Polinesia la prima bomba H francese.

CEE. 11 maggio. Accordo dei Sei sull'Europa verde: entro il l' luglio sarà completamente realizzata l'unione doganale.

10 novembre. Il governo inglese inizia nuovi sondaggi preliminari per una nuova domanda d'adesione alla CEE.

Germania Federale. 1° dicembre: viene costituito da K. Kiesinger un governo detto "di grande coalizione" al quale partecipano socialdemocratici (SPD) e democristiani (CDU).

India-Pakistan. 4-10 gennaio. A Tashkent, in Unione Sovietica, si svolge la Conferenza indo-pakistana, alla presenza del Primo Ministro sovietico Kosygin. I due paesi stabiliscono di ritornare alla situazione precedente all'agosto 1965 (inizio dell'invasione del Pakistan da parte dell'India) e riallacciano le relazioni diplomatiche.

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1967
Medio Oriente. 18 maggio. Tensione nella zona: l'Egitto invita l'ONU a ritirare le sue forze; il 22 maggio la RAU chiude il golfo di Akaba e blocca il porto israeliano di Elat.

5-10 giugno. Guerra "dei sei giorni". La tensione fra Israele ed Egitto sfocia in un improvviso quanto rapido conflitto armato. Le forze corazzate israeliane penetrano in territorio egiziano e, dopo una rapida avanzata nella penisola del Sínai, raggiungono il canale di Suez. Contemporaneamente alcuni reparti occupano Gerusalemme e la Cisgiordania. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU del 22 novembre 1967, che definisce i termini di un regolamento del conflitto arabo-israeliano, resta inoperante e gli incidenti militari si moltiplicano nella zona del canale per tutto il 1968 e il 1969.

L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che non è riuscita a crearsi basi operative nei territori occupati, compie azioni terroristiche, come i dirottamenti aerei, e operazioni di commando da basi situate in Libano, in Siria e in Giordania. Nel luglio 1970 un'azione congiunta russo-americana riesce a stabilire un cessate il fuoco nella zona del canale. L'annientamento dei fedayn da parte dell'esercito giordano di Re Hussein priva l'OLP delle sue basi in Giordania.

Sud-Est asiatico. 8 agosto. Alcuni paesi della zona creano l'Associazione delle Nazioni dell'Asia del Sud-Est (ASEAN): sono Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia.

Grecia. 21 aprile. Un colpo di Stato militare pone fine al sistema parlamentare. La crisi politica si era aperta nel luglio 1965 quando il Re Costantino II aveva allontanato il Primo Ministro Giorgio Papandreu il cui partito, l'"Unione di Centro", aveva riportato la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1964. Nel dicembre 1967 Costantino è soppiantato dal regime dei colonnelli.

AELE. 1° gennaio. Decadono, fra i paesi dell'AELE, gli ultimi diritti doganali

Gran Bretagna. 2 maggio. Nuova richiesta britannica di entrare nel

MEC ma, ancora una volta, la Francia pone il suo veto a che la richiesta sia presa in considerazione. Le elezioni del marzo 1966 avevano dato al Partito Laburista una maggioranza sufficiente a mettere Wilson al coperto dalla eventuale opposizione della sua ala sinistra. Nel luglio il Gabinetto Wilson aveva intrapreso una serie di misure deflazionistiche allo scopo di ricostituire le riserve valutarie e di frenare i movimenti speculativi contro la sterlina.

Il 20 luglio veniva annunciato il blocco dei prezzi e dei salari; a novembre veniva resa nota la decisione di chiedere l'ingresso nel MEC. A sollecitare l'adesione sono gli industriali. Infatti il peso dell'interscambio coi sei paesi del MEC sul totale del commercio estero inglese è andato via via decrescendo; nel 1970 esso sarà uguale a quello coi paesi del Commonwealth.

18 novembre. La sterlina viene svalutata del 14,3%.

Germania Federale. 30 gennaio. La RFT ristabilisce le relazioni diplomatiche con la Romania.

Unione Sovietica. Gravi incidenti sono provocati a Mosca da studenti cinesi.

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"Il nemico è in casa nostra"

Nelle tesi per I'XI Congresso il PCI definisce il "mantenimento della pace" il compito fondamentale della sua azione politica.

La "pace" diventa il problema principale, attorno al quale tutti gli altri problemi si dispongono in modo subordinato anche se, ovviamente, interdipendente. L'ideologia della "coesistenza pacifica" è di fatto l'ideologia dominante che ispira le tesi del PCI, tanto dominante che non è neppure scalfita dai lampi della guerra del Vietnam. Eppure è stata proprio l'esplosione vietnamita che ha mandato in frantumi il mito della "coesistenza pacifica" e che ha dimostrato come dietro a questa menzogna si nascondesse l'inesauribile lotta per la suddivisione delle sfere d'influenza e per le zone del mercato mondiale tra le potenze imperialistiche, lotta che si basa sulla violenza economica principalmente ma che impiega la violenza militare quando questa diventa inevitabile.

Le leggi obiettive dell'imperialismo, le leggi che regolano la violenza imperialistica comunque esercitata, non si fermano di certo di fronte ai piagnistei dei pacifisti o alle esaltazioni "coesistenziali", anzi più forte è il pacifismo più intensa ed estesa è la manifestazione della violenza imperialistica, proprio a confermare nella concreta realtà la cruda situazione dei rapporti di forza tra le classi nel mondo. Chi contiene ed abbatte la violenza dell'imperialismo è solo la violenza del proletariato internazionale: questo, per tutta la loro storia, i gruppi imperialistici lo sanno bene, di questo hanno una lucida coscienza e quando, invece della violenza proletaria, si trovano di fronte il pacifismo piccolo borghese, ricevono una ulteriore conferma che i rapporti di forza sono a loro favore e che niente lega loro le mani.

Questa è la prima equazione che il marxismo trae dalla esperienza storica delle lotte delle classi nel mondo. La seconda equazione può essere stabilita nel seguente modo: il massimo di "democraticismo" è direttamente proporzionale al massimo di "pacifismo". Da qui si ricava la formula: maggiore "democraticismo" + maggiore "pacifismo" = maggiore imperialismo. Cambiate i nomi, chiamateli "via democratica al socialismo" e "consistenza pacifica": il risultato sarà sempre lo stesso e la formula non sarà una formula astratta ma la sintesi della cruda realtà.

Che avviene di diverso nel Vietnam? L'imperialismo americano, che nel dominio del mercato mondiale e, quindi, della "coesistenza" ha la parte del leone perché la sua potenza militare non è altro che l'espressione della sua potenza economica capitalistica, cerca nel Vietnam non solo di conservare ma di estendere la sua espansione. Per fare ciò impiega tutti i mezzi, nessuno escluso, e può farlo perché non c'è un proletariato internazionale rivoluzionario che gli tagli le mani e che lo colpisca al cuore delle sue basi di partenza, alle arterie che alimentano la sua espansione. Esso si trova di fronte non un "mondo socialista", ma una potenza qual è l'URSS che è uno dei pilastri della strategia imperialistica della "coesistenza pacifica" ed un paese come la Cina che, in una lotta contro l'URSS, cerca, senza minimamente riuscirvi, di contenere l'espansione delle potenze imperialistiche in Asia.

Frutto, la Cina stessa, di una rivoluzione democratico-borghese abbandonata dall'Internazionale Comunista del proletariato, divenuta strumento dello Stato staliniano, e quindi destinata a compiersi a metà, ad essere diretta invece che da un partito operaio lenínista da un partito populista (maoista), non può di certo costituire il centro motore di rivoluzioni conseguentemente antímperialiste in Asia. In altre parole la Cina maoista non può continuare il ruolo a cui, nel pensiero e nell'azione di Lenin, era destinata l'Internazionale Comunista del proletariato internazionale, non solo nell'appoggio, ma nella stessa direzione effettiva delle rivoluzioni antimperialiste nelle zone arretrate. Il colpo mortale all'Internazíonale Comunista fu dato certamente da Stalin, ma a questi non mancò l'adesione di Mao e di Ho Chi Minh.

Pensare, quindi, che anche semplici rivoluzioni democratíco-borghesi possano portare sino in fondo, senza essere di fatto dirette da una organizzazíone rivoluzionaria del proletariato internazionale, una lotta contro l'imperialismo, significa rinnegare l'essenza stessa del marxismo.

Se storicamente fosse valida tale concezione della rivoluzione borghese nell'epoca imperialista, la rivoluzione russa avrebbe avuto una direzione menscevica, il Bolscevismo non sarebbe mai sorto, la rivoluzione si sarebbe fermata a Kerensky e non sarebbe mai arrivata all'ottobre del 1917.

Nella prima rivoluzione del 1905 i marxisti russi arrivarono alla conclusione a cui era già giunto Marx nel 1848: una effettiva rivoluzione borghese non poteva più essere diretta dalla borghesia o dai contadini.

La storia poneva definítivamente questo compito sulle spalle del proletariato e del suo partito. La seconda rivoluzione del febbraio 1917 dimostrò che la teoria marxista era giusta. Una effettiva riforma agraria (borghese e non ancora socialista!) ed una effettiva lotta contro l'imperialismo non potevano essere portati avanti che dalla dittatura del proletariato. La rivoluzione russa, per risolvere nei fatti e non solo nelle parole i suoi problemi democratico-borghesi, divenne una rivoluzione "doppia", da "borghese" divenne "socialista". Ciò fu possibile perché l'azione del partito russo si inquadrò nell'azione del proletariato internazionale.

La lezione dell'Ottobre è oggi più che mai valida. La pratica di Mao e di Ho Chi Minh ne è una conferma.

La guerra del Vietnam non è sorta oggi, così a caso. Essa è un risultato storico dell'intreccio tra la violenta espansione imperialística e l'impotenza delle rivoluzioni democratico-nazíonaliste in Asia. Il continente asiatico è ormai da decenni un vulcano di lotte imperíalistiche e di lotte sociali. Lenin ne intravide giustamente le conseguenze sui rapporti tra le potenze imperialistiche e le possibilità che si aprivano per il proletariato internazionale dalla gigantesca tempesta che si andava accumulando in Asia. Tutte le contraddizioni e tutta la violenza dell'imperialísmo mondiale sarebbero esplose nel rogo asiatico. L'Internazionale Comunista del proletariato internazionale avrebbe attinto a questo enorme serbatoio di "sostanze infiammabili" della rivoluzione mondiale, per dare l'assalto definitivo alle cíttadelle dell'imperialismo occidentale e giapponese. La previsione di Lenin era scientificamente esatta. Mancò l'Internazionale Comunista, ma le fiamme della violenza ímperialistica divamparono e divampano tuttora.

Solo che il centro della lotta non fu, e non è, il fronte delle rivoluzíoni nazionali contro l'imperialismo, ma i vari gruppi imperialistici in concorrenza per la dominazione dell'Asia. Anzi, per molto tempo, le rivoluzioni nazionali, invece di costituire una forza contro i gruppi imperialisti, furono utilizzate in vari modi nella strategia di un gruppo imperialistíco contro l'altro. Il Giappone scalzò l'Inghilterra, la Francia e l'Olanda, ma gli Stati Uniti con l'aiuto dei vari Mao e Ho Chi Minh sconfissero il Giappone e si trovarono l'Asia in mano.

Da gruppo concorrente e compartecipante allo sfruttamento dell'Asia, gli Stati Uniti ne diventarono padroni assoluti, specie nell'Estremo Oriente. Gli anni che seguono la seconda guerra mondiale imperialistica vedono l'espansione militare e, soprattutto, economica dell'imperialismo statunitense non solo nell'Estremo Oriente ma pure nel Sud-Est asiatico, dove i vecchi imperialismí inglese, francese e olandese sono riusciti a conservare, anche se estremamente indeboliti, una certa influenza.

Si apre la seconda fase dell'espansione imperialistica americana diretta a spodestare i vecchi concorrenti e ad impadronirsi economicamente del Sud-Est asiatico.

In questa seconda fase si inquadra l'insurrezione antifrancese del Vietminh. In otto anni il Vietminh arriva praticamente al 13° parallelo e alla vittoria di Dien Bíen Phu. Il rapporto di forze militari (120 battaglioni contro 80 francesi) volge a favore del Vietminh che oggettivamente potrebbe buttare a mare il contingente francese e creare uno Stato unitario indocinese. Ma l'impotenza politica della rivoluzione democratico-borghese vietnamita è dimostrata proprio dagli accordi di Ginevra del 1954, in cui viene sancita la spartizione in due Vietnam al 17° parallelo, viene riconosciuta la sovranità del Laos e della Cambogia, viene proclamata l'unificazione "pacifica", tramite "libere elezioni", dei due Vietnam entro il 1956.

Perché il Vietminh, che aveva vinto sul piano militare, restava sconfitto sul piano politico? Perché accettava che URSS, Cina, Inghilterra, Stati Uniti e India patteggiassero la sua vittoria?

La risposta può essere data esaminando vari aspetti, ma tutti questi conducono ad analizzare la tendenza di fondo dell'espansione imperialistica statunitense nel Sud-Est asiatico. In effetti, nella misura in cui l'imperialismo francese si indeboliva sotto i colpi della rivoluzione vietnamita, si rafforzava la presenza americana. Gli Stati Uniti coglievano l'occasione della sconfitta della Francia per soppiantarla nella penisola indocinese. Il Nord Vietnam, confinato in un territorio troppo ristretto che non gli permette uno sviluppo rapido e consistente delle forze produttive, è costretto a subire l'espansione economica dell'imperialismo statunitense che, dilagando a macchia d'olio, finirebbe per assorbirlo.

L'insurrezione nel Sud Vietnam è l'unica risorsa che rimane a Ho Chi Minh per tentare di arrestare la marcia della penetrazione americana, una risorsa di difesa e non di attacco, impiegata, però, in condizioni peggiori di quelle createsi nel 1954. Gli Stati Uniti intervengono con tutta la loro micidiale potenza militare ed esperimentano, come se fosse una grande manovra, una grande prova, le nuove strategie antiguerriglia.

Malgrado il loro eroismo, i partigiani vietnamiti sono costretti a subire i metodi della repressione americana.

Essi stanno pagando duramente la mancanza di un movimento rivoluzionario nella classe operaia occidentale. È solo sul fronte della lotta di classe nelle metropoli imperialistiche che la guerra del Vietnam può significare una sconfitta per l'imperialismo. La vera lotta contro l'imperialismo deve essere combattuta dal proletariato.

"Il nemico è in casa nostra", denunciarono gli internazionalisti nel 1914. Noi riprendiamo la loro parola d'ordine, fedeli alla strada maestra del marxismo rivoluzionario.

("Lotta Comunista" n. 1, dicembre 1965)

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La crisi del capitalismo cecoslovacco

Una delle tesi che per molto tempo hanno agitato i sostenitori dell'URSS e dei paesi cosiddetti "socialisti" per sostenere la superiorità di quei sistemi è stata quella relativa ai ritmi di incremento. La natura socialista dell'URSS e dei paesi dell'Europa orientale, dicevano questi signori, determina forti ritmi di incremento economico e, quindi, l'alto sviluppo industriale ed agricolo dimostra il carattere socialista di quelle economie.

Su questo sofisma si è basata in gran parte la teoria del "socialismo in un paese solo", prima, e del "sistema socialista", poi; del rinnegamento della rivoluzione internazionale a favore dell'"edificazione del socialismo", prima, e della competizione economica tra i due "sistemi" nel quadro della "coesistenza pacifica", poi.

Chi voglia sincerarsene non ha altro che da sfogliare i rapporti di Stalin e dei suoi portaparola, le risoluzioni dei Congressi sovietici, i discorsi di Kruscev, i testi del XX, XXI e XXII Congresso. Per l'Italia basta un'occhiata alla collezione de "l'Unità" e di "Rinascita" in cui, oltre che da Togliatti, questa tesi è sostenuta dai "grandi economisti" del PCI. Costoro per molti anni si sono battuti, statistiche alla mano, per dimostrare il socialismo con le percentuali d'aumento della produzione economica.

Di tale serietà e levatura scientifica non sarebbe il caso di parlare se anche di questi argomenti non si fosse fatto un'arma di propaganda verso la classe operaia. Oggi che i ritmi d'incremento sovietici sono caduti, l'allegra tesi è stata rapidamente ritirata e mandata in pensione.

Noi marxisti abbiamo sempre detto, invece, che la natura sociale di un paese è data dai rapporti di produzione predominanti in quel paese. I rapporti di produzione esistenti nell'URSS, Polonia, Ungheria, ecc. erano e sono rapporti di produzione capitalistici e quindi non potevano e non possono che dar vita a manifestazioni tipiche del capitalismo. Il loro forte ritmo d'incremento economico è, appunto, una delle caratteristiche dello sviluppo capitalistico, uno dei momenti del ciclo della produzione capitalistica; anzi ne è la condizione fondamentale. Lo sviluppo del capitalismo, infatti, è uno sviluppo ciclico contrassegnato da punte massime e da punte minime.

Lo sviluppo capitalistico non può, per sua natura, essere lineare. Il fatto che in una fase del loro sviluppo economico l'URSS e gli altri paesi dell'Europa orientale segnassero alti ritmi d'incremento era, appunto, la dimostrazione che quel tipo di sviluppo era basato su rapporti di produzione capitalistici e che, inevitabilmente, sarebbe stato contrassegnato da tutti quei fenomeni ciclici del capitalismo. Più forte era lo sviluppo e più rapidamente questi paesi si sarebbero avvicinati alla fase di crisi del ciclo, alla depressione e alla stagnazione, per poi magari riprendersi in una nuova fase espansiva, a ritmi ridotti però, come accade per tutti i paesi capitalisticamente "maturi" in Europa e in America.

Di tutto il gruppo orientale, il paese che più ha raggiunto la "maturità" capitalistica e che, di conseguenza, più rapidamente si è presentato all'appuntamento del ciclo capitalistico è la Cecoslovacchia. Esso non fa che precedere i suoi compagni di viaggio.

La Cecoslovacchia, che era il paese più sviluppato industrialmente del blocco sovietico già quindici anni fa, è stato quello che più ha subito una crisi. Mentre Ungheria, Bulgaria e Romania, ad esempio, stanno ancora compiendo la loro industrializzazione e creando il loro capitalismo, la Cecoslovacchia, che ha già raggiunto la sua industrializzazione capitalistica, non solo ha rallentato i suoi ritmi ma addirittura li ha regrediti.

Alcuni sostengono che la causa di ciò debba essere ricercata, oltre che nella politica di sfruttamento da parte dell'URSS per molti anni, nel fatto che la Cecoslovacchia è gravata, dall'URSS stessa, della assistenza che deve fornire agli altri Stati del blocco e soprattutto dagli aiuti che deve fornire ai nuovi Stati africani e a Cuba, aiuti dei quali la Cecoslovacchia sarebbe la maggior fornitrice del blocco. A parte il fatto che questi aiuti quando non sono fatti come prestiti con relativi interessi sono attuati proprio dalla Cecoslovacchia poiché, in quanto paese più industrializzato, è quello che ha maggiore interesse a penetrare in mercati che si potranno aprire sempre più alle sue esportazioni, riteniamo che tali aspetti non siano che aspetti secondari della crisi cecoslovacca. Indubbiamente esistono, ma se in parte hanno aggravato il ciclo economico cecoslovacco non lo hanno di certo determinato. La diagnosi che, invece, hanno fatto i dirigenti cecoslovacchi è un'altra: tutto il male risiede nel tipo di pianificazione finora attuata, questo tipo di pianificazione porta alla catastrofe, occorre applicare nuovi criteri di direzione, nuove forme di gestione economica.

Soffermiamoci su questa diagnosi e sulle nuove misure adottate il 29 gennaio per vedere quanto l'una e le altre non rilevino che gli aspetti formali della crisi. Innanzitutto possiamo chiederci: se l'origine della crisi risiede nel vecchio tipo di pianificazione come si spiega che questo prima avesse permesso il "boom" dello sviluppo?

Evidentemente vi sono stati fattori strutturali che hanno determinato il "boom" e poi la crisi e se, ad un certo momento del ciclo, un determinato tipo di pianificazione può avere aggravato determinate tendenze o non essere stato in grado di impedirle o correggerle, questo è un problema tipico e generale dello sviluppo capitalistico.

In ogni paese si possono verificare, e si verificano, errori di politica economica e si possono stabilire determinati tipi di direzione che aggravano le conseguenze prodotte dalle leggi economiche del capitalismo. Una delle conseguenze sovrastrutturali del ciclo è, appunto, l'elaborazione ed il tentativo di nuove misure di politica economica da parte dello Stato e delle grandi concentrazioni capitalistiche.

Sorge, quindi, per il capitalismo la necessità di un piano che preveda, organizzi e controlli su scala nazionale, ed in seguito su quella internazionale, tutto il processo molecolare della produzione capitalistica e del realizzo del plusvalore, processo che, per sua natura, risiede nella unità aziendale, industriale, agricola e commerciale. Un certo grado di controllo, e quindi di "piano" è reso possibile quando queste unità si concentrano, quando cioè abbiano un alto grado di concentrazione e quando tale concentrazione investe i settori fondamentali della produzione. Sotto questo aspetto, abbiamo già detto altre volte, hanno una possibilità oggettiva maggiore di "pianificazione" le duecento gigantesche corporation americane di quanto ne abbiano le centomila aziende sovietiche. Entro certi limiti i "giganti" americani possono determinare investimenti e consumi, controllare il mercato, orientare la produzione, compiere cioè opera di "pianificazione". Senz'altro possono "pianificare" di più dei Ministeri e dei sovnarchoz sovietici e cecoslovacchi, poiché la pianificazione richiede non solo il controllo burocratico ma, e soprattutto, il controllo aziendale-economico e questo, lo ripetiamo, sarà tanto maggiore quanto più grande sarà l'azienda e quanto più poche aziende giganti dominano la produzione e il mercato.

Certamente esistono metodi di controllo (il credito, le imposte, l'uso di determinate fonti di investimento, ecc.) su una economia a forte frazionamento aziendale e dove persistono una infinità di medie e piccole unità aziendali. Ma questo controllo è oggettivamente limitato ed il suo uso determina reazioni né prevedibili né controllabili, dato che il controllo deve essere "potere" di decisione e dato che questo "potere" per essere reale non può essere estremamente frazionato. Ne risulta quindi che, malgrado l'esistenza di un esteso apparato di controllo burocratico, questo finisce col controllare un bel niente e con l'aggiungere caos al caos già esistente. Ciò è quello che è accaduto in URSS e in Cecoslovacchia, dove la cosiddetta "pianificazione" pianificava a parole e poteva mascherare la sua inefficacia solo nella prima fase di industrializzazione, quando cioè il controllo burocratico, malgrado la sua capillarità, aveva il compito limitato di accelerare l'accumulazione di capitali per lo sviluppo dell'industria pesante mediante la compressione dei salari.

Abbiamo detto "accelerare" ed in questo si è caratterizzata la "vecchia pianificazione". Per gli altri settori, per l'agricoltura, non solo di fatto non vi era "pianificazione", né avrebbe potuto esserci, ma il caos che in essa imperava andava sempre più sviluppandosi a misura che i cicli della produzione facevano il loro corso. Quando lo sviluppo della industria pesante ha raggiunto un certo limite è risultata evidente l'assenza di "pianificazione" ed il caos produttivo, compresso dall'industrializzazione pesante, ha invaso tutto il mercato, tutta la struttura, tutte le unità produttive, grandi e piccole.

Abbiamo detto che una limitata o relativa "pianificazione" può essere fatta solo da una economia determinata da unità aziendali giganti, quali ad esempio quelle statunitensi. Di fatto i giganti americani "pianificano" gli Stati Uniti e certe parti del mondo. Ma nel momento in cui i grossi monopoli hanno la possibilità oggettiva di pianificare il loro mercato nazionale, il loro stesso sviluppo determina una serie di problemi che strutturalmente non possono risolvere. La loro produzione è proiettata sul mercato internazionale, il loro mercato nazionale che potrebbero controllare è insufficiente allo sbocco della loro produzione. Deve diventare un mercato internazionale. Quindi un'effettiva "pianificazione" può essere solo quella a livello internazionale poiché è impossibile "pianificare" i fattori nazionali dello sviluppo economico se questi sempre più sono influenzati dal mercato mondiale. Quanto più lo sviluppo delle forze produttive rende possibile un loro controllo tanto più essi diventano interdipendenti dall'economia mondiale. L'imperialismo dovrebbe allora pianificare il mondo, ma questo era il sogno della teoria del "superimperialismo" di Kautsky. Di fatto l'imperialismo è la manifestazione più ampia della lotta che sull'arena mondiale viene a scatenarsi tra le varie nazioni capitalistiche che hanno raggiunto un tale sviluppo di forze produttive, con la conseguente concentrazione, da straripare oltre i rispettivi mercati nazionali.

Si può dire di più: la stessa espansione imperialistica delle nazioni "mature" rende, poi, praticamente impossibile quella loro relativa pianificazione che la possibilità oggettiva di controllare il loro mercato avrebbe permesso. Il mercato nazionale delle metropoli imperialiste, resosi così estremamente interdipendente dal mercato mondiale, diventa di fatto incontrollabile.

La pianificazione, quindi, non è un fatto concreto ma una ideologia. Essa nella pratica non esiste né può esistere in una economia basata su rapporti capitalistici di produzione, perché il vero ed unico "piano" è quello che corrisponde alle esigenze effettive della società e sarà possibile solo in una economia socialista dove il capitale e quindi il salario saranno scomparsi.

L'ideologia della "pianificazione" invece esiste come strumento propagandistico del riformismo, come illusione da offrire alle masse operaie in cambio della loro accettazione ideologica del sistema capitalistico sia nell'Europa occidentale che nell'Europa orientale.

Il caso cecoslovacco è estremamente significativo. In una intervista del 28 novembre 1964 al settimanale "Rinascita", il professore Ora Sik, uno dei massimi esponenti del "nuovo corso", dichiarava: "Le imprese, poi, in base a questi piani macroeconomici a lungo termine (alla cui formazione partecipano), devono esse stesse decidere concretamente della loro produzione, a quali tipi di prodotti dedicarsi, in che quantità, con quale tecnologia, con quali costi di produzione ecc. Saranno guidate su questo terreno dallo sviluppo concreto della domanda sul nostro mercato interno e sui mercati esteri, perché dovranno, con le loro entrate, far fronte ai propri bisogni".

Quindi sarà anche la domanda del mercato mondiale a indirizzare quantitativamente e qualitativamente la produzione delle aziende cecoslovacche che si vorrebbe far passare per socialiste solo perché sono di proprietà statale!

Oggi che le aziende cecoslovacche hanno bisogno della domanda del mercato mondiale superano il vecchio tipo di "pianificazione": è questa la causa della "svolta" e non un presunto ritorno al profitto come dicono i propagandisti occidentali.

Il profitto non è mai scomparso nell'economia cecoslovacca né in quella sovietica. È appunto perché è sempre esistito il profitto che oggi l'economia cecoslovacca è giunta, di necessità, alla dipendenza dalla domanda del mercato mondiale.

Per chi ha sempre saputo analizzare marxisticamente l'economia cecoslovacca non è mai stato difficile rintracciarvi la presenza ed il ruolo del profitto capitalistico, anche negli anni passati. La sola differenza è che oggi il profitto viene chiamato col suo nome anche se, per colmo d'ironia, vi si aggiunge l'aggettivo "socialista".

Il professar Sík ha la spudoratezza di dire: "Non si tratta di nessun ritorno al capitalismo. Non si deve dimenticare che si tratta soprattutto di imprese socialiste, di imprese a proprietà socialista, il cui carattere socialista non cambia ove aumenti la loro autonomia e l'orientamento verso il mercato".

Cioè, in definitiva, il carattere socialista delle imprese cecoslovacche è dato non dalla loro funzione nei confronti del mercato (anche il professar Sik avverte la palese contraddizione di definire socialista un'impresa che lavora per il mercato; l'impresa capitalistica cosa sarebbe allora?), ma dalla proprietà socialista, ergo proprietà statale. L'unico carattere socialista di queste imprese sarebbe la proprietà statale. Tutta la profonda scienza del professar Sik si riduce ad identificare la proprietà statale col socialismo!

Per il resto, tutti i caratteri delle imprese cecoslovacche sono tipicamente capitalistici: "... riconoscere la necessità di estendere di molto il potere delle imprese socialiste e di servirsi meglio delle leggi del valore...", ma, soprattutto, "... il nuovo sistema di direzione della produzione indurrà le nostre imprese a un interesse molto più grande verso la redditività aziendale, nonché verso i mezzi produttivi e la forza lavoro che hanno a disposizione... potranno pagare solo quei salari e premi che permetteranno le vendite delle loro merci...". Qui siamo arrivati al cuore di tutte le teorie del professar Sik, siamo arrivati alla sua chiara enunciazione del carattere capitalistico delle imprese cecoslovacche: lo sfruttamento della forza lavoro e la conseguente formazione di plusvalore. Le riforme del professar Sik vogliono, quindi, determinare con più precisione il salario nel quadro dell'effettivo profitto realizzato dall'azienda.

Le misure adottate dal CC alla fine di gennaio vanno proprio in questa direzione; infatti stabiliscono che:

1) è accresciuta l'autorità e la responsabilità dell'azienda;

2) l'azienda, nei suoi organismo dirigenti, è responsabile dell'ammortamento degli investimenti;

3) i risultati economici dell'azienda sono giudicati secondo i profitti realizzati e non più secondo le percentuali di esecuzione dei piani;

4) i salari saranno determinati, oltre che dalle qualifiche, dai risultati finanziari dell'impresa;

5) i prezzi mondiali avranno una ripercussione diretta sulle imprese che lavorano per l'esportazione;

6) le imprese commerciali sceglieranno direttamente le imprese fornitrici; viene introdotto un sistema di vendita a commissione.

Ecco in che modo l'economia cecoslovacca cerca di superare la sua crisi mostrando tutto il suo volto capitalistico. La menzogna del "socialismo" nell'Est cade a pezzi.

("Lotta Comunista" n. 1 dicembre 1965)

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L'accordo FIAT-URSS è un episodio della integrazione
del capitalismo europeo

L'accordo concluso dalla FIAT con l'URSS è stato commentato dalla stampa italiana ed internazionale in termini che ne rivelano il suo contenuto di classe borghese.

"La Stampa", organo della FIAT, lo ha esaltato come una vittoria della "coesistenza pacifica" e come l'inizio di una nuova fase di espansione economica. Secondo la logica del profitto capitalistico della FIAT, il ragionamento fila. Ma noi dobbiamo metterci dal punto di vista della logica della classe operaia e vedere cosa realmente rappresenta questo accordo.

Esamineremo, quindi, i termini dell'accordo e quale ruolo gioca nelle tendenze di sviluppo del capitalismo italiano. In secondo luogo, vedremo come lo stesso commento della stampa del PCI dimostri ormai chiaramente la natura controrivoluzionaria della politica di questo partito che spudoratamente si proclama comunista mentre ormai non è che un puntello del sistema economico imperialistico mondiale.

In un nostro commento al XXII Congresso del PCUS avevamo definito il processo di distacco del PCI dall'URSS come il risultato dei nuovi rapporti economici che si erano andati stabilendo tra i singoli capitalismi europei ed i capitalismi "statali-privati" dell'Europa Orientale e dell'URSS, rapporti che sul piano politico ed ideologico venivano definiti "coesistenza pacifica". Nella nostra analisi marxista erano stati i mutamenti dei rapporti economici tra le due aree a determinare i mutamenti dei rapporti politici e non viceversa. Alla base di questo fenomeno stava un processo di integrazione tra il mercato dell'Europa occidentale ed il mercato dell'Europa orientale, un processo oggettivo determinato dai comuni rapporti di produzione di tipo capitalistico. Diciamo un processo oggettivo, cioè inarrestabile, perché è stato un processo determinato dallo sviluppo del mercato imperialistico mondiale e aperto, per quanto riguarda l'Europa orientale e l'URSS, dalla seconda guerra mondiale, tappa che segna la definitiva fine della relativamente autarchica fase di industrializzazione sovietica del periodo staliniano.

Il risultato della seconda guerra mondiale imperialistica è stato, quindi, lo sviluppo del mercato dell'Europa orientale, del mercato russo, ucraino, caucasico, cioè di quel mercato che l'imperialismo tedesco cercò di conquistare con la forza e che la prova delle armi ha invece consegnato ai suoi rivali europei ed americani. Riorganizzati i gruppi capitalistici europei sulla base di una maggiore integrazione, sia reciproca che con il capitalismo americano, veniva ad aprirsi definitivamente, e sulla base non più di rapporti di forze militari ma di mediazioni di interessi, la conquista del mercato europeo orientale.

In questa fase, la teoria staliniana del "socialismo in un solo paese" prima, del "mercato socialista sovietico" poi e del "mercato del campo socialista" infine, veniva a crollare miseramente. Nel momento in cui Stalin la formulava nel suo ultimo scritto del 1952 era già stata sotterrata dalla realtà. Lo sviluppo storico aveva dimostrato quanto esatta fosse la previsione di Trotsky quando diceva, per demolire la teoria del "socialismo in un solo paese", che lo sviluppo dell'economia sovietica avrebbe inevitabilmente integrato questa economia nel mercato mondiale.

Così come le teorie staliniane non erano altro che l'espressione del movimento reale dell'economia, il loro fallimento non fu che il riflesso dello stesso sviluppo economico. I teorici della "coesistenza pacifica" tentarono di riparare con una nuova e grossolana falsificazione. Dissero che alla base della "coesistenza pacifica" vi era la "competizione pacifica" sul mercato mondiale di due sistemi sociali, quello capitalista e quello cosiddetto "socialista". Dimostrammo, analizzando le reali tendenze di sviluppo economico, che questa teoria non era che una volgare mascheratura propagandistica di un fenomeno di integrazione, non di due sistemi sociali diversi ma di due mercati che avevano gli stessi caratteri capitalistici. Oggi che questo fenomeno appare clamorosamente con gli accordi tipo FIAT-URSS i teorici della "coesistenza pacifica" si sono dimenticati la "competizione", non ne parlano più.

E qui viene a collocarsi la caratterizzazione del PCI come propagandista presso la classe operaia di tale processo di integrazione dei due mercati. La propaganda del PCI accompagna, passo su passo, questo processo cambiando di volta in volta le teorie, usando di volta in volta nuovi argomenti, se così possiamo chiamarli. Lo sviluppo della realtà è venuto a confermare la caratterizzazione che avevamo dato del PCI quando l'integrazione non era ancora giunta a tappe così chiare e qualificanti.

Siccome il capitalismo di Stato russo andava stabilendo una rete comune di interessi con i gruppi capitalistici europei, il PCI andava progressivamente perdendo il suo carattere di espressione politica del capitalismo di Stato russo per assumere i caratteri corrispondenti a questi nuovi interessi emergenti dell'integrazione del mercato europeo. Insomma, il PCI diventa una formazione politica adeguata ad un nuovo assetto dell'economia europea. Di qui la sua "autonomia" da uno "Stato guida" sovietico ormai superato dalle stesse tendenze di sviluppo del capitalismo russo, di qui la sua "dipendenza" da un sistema capitalistico che ha interessi supernazionali includenti anche gli interessi del capitalismo russo.

Sul PCI non incombe più la "difesa dell'URSS", ma la difesa del capitalismo nelle sue attuali forme di integrazione. Solo nel caso di crisi profonde che sconvolgano le attuali compenetrazioni dei mercati nazionali, il PCI potrà ritornare a difendere un solo mercato nazionale contro gli altri concorrenti. Ma oggi non possiamo sapere quale, se quello sovietico o quello italiano ad esempio.

Quello che oggi possiamo sapere è che, negli accordi automobilistici ad esempio, FIAT e URSS hanno un interesse comune a che investimenti, produzione, mercato delle materie prime, mercato della forza lavoro, non siano turbati dalla concorrenza di altri paesi, da oscillazioni eccessive dei prezzi, da movimenti dei salari, dalla lotta della classe operaia. L'URSS è interessata ad una stabilizzazione dell'economia capitalistica italiana, la FIAT ad una stabilizzazione dell'economia russa. Ogni forte scossone di una delle due economie finirebbe, infatti, con il ripercuotersi nell'altra.

Nell'accordo che impegna la FIAT a costruire un impianto in URSS per la fabbricazione di 600.000 autovetture all'anno e che prevede un investimento di circa 900 miliardi di lire, pari al fatturato annuo della FIAT e a circa un settimo degli investimenti annui del capitalismo italiano, l'azienda torinese deve produrre ben 4.500 macchine utensili per il mercato sovietico. Ogni fatto che ritardasse o impedisse questa produzione (scioperi, mancanza di materie prime, ritardi nei rifornimenti, recessioni, inflazioni, crisi ecc.) finirebbe inevitabilmente con il provocare squilibri nella produzione sovietica, scoordinamenti dei suoi piani produttivi, abbassamenti del ritmo produttivo in molti settori. In termini marxisti potremmo dire che si verificherebbe il caso di una lenta rotazione del capitale investito, con la conseguente caduta del saggio di profitto, abbassamento della produttività del lavoro, aumento dei costi, ecc.

La funzione del PCI, per la parte che gli compete, è quella di adoperarsi affinché ciò non si verifichi.

Eugenio Peggio, in, un articolo su "Rinascita" del 7 maggio, teorizza apertamente la funzione del PCI in questo campo. Finalmente Peggio dice le cose come stanno: "Man mano che gli scambi tra i paesi capitalistici e quelli socialisti hanno assunto una importanza crescente, si è delineata la possibilità di stabilire tra le imprese degli uni e degli altri forme di collaborazione che tendono ad estendere e ad intensificare la divisione internazionale del lavoro che già di per sé il commercio internazionale promuove... l'evoluzione in questa direzione dei rapporti economici Est-Ovest (...che ha concorso in misura tutt'altro che trascurabile all'espansione economica registrata in questi anni in ogni paese europeo...) ...corrisponde ad una tendenza del tutto logica, poiché l'intensificazione degli scambi commerciali porta naturalmente ad accordi tra le imprese per la specializzazione della produzione e per la divisione del lavoro...".

Abbiamo ben poco da commentare. Il discorso di Peggio è chiarissimo ed arriva direttamente allo scopo: "... l'esistenza del socialismo [sic] nell'Europa Orientale e del capitalismo nell'Europa Occidentale, contrariamente a quanto si riteneva (e si continua a ritenere) da più parti, non ha rappresentato un ostacolo all'avvio di forme di collaborazione tra le imprese delle due aree, che fanno intravedere larghe possibilità di sviluppo della divisione internazionale del lavoro e in prospettiva forme di integrazione economica tra le imprese dei due sistemi".

Apriamo bene gli occhi: l'economista del partito che continua a proclamarsi comunista solo per continuare ad ingannare gli operai delle "imprese integrate" non si è sbagliato. Ha detto chiaramente che la prospettiva della FIAT, della Montedison, della Krupp, della General Motors è quella della "integrazione economica" con le aziende sovietiche. In altre parole le aziende "socialiste" si integreranno economicamente con le aziende capitaliste. Ma come può essere "socialista" una azienda che si integra economicamente con una azienda capitalista? Peggio non è tanto analfabeta da non saperlo. Infatti, quando definisce "integrazione economica" la prospettiva dei rapporti tra aziende occidentali ed aziende sovietiche ha già detto tutto quello che doveva dire sulla natura capitalistica di tale "integrazione". Passa, poi, a descrivere gli aspetti particolari della "integrazione", sulla base di documenti del Centro del Commercio Estero francese e dell'Istituto per la Congiuntura del Ministero del Commercio Estero dell'URSS. Ecco quali sono gli aspetti particolari.

1) "L'elettronica, l'aeronautica, la chimica, i trasporti sono... i settori nei quali si può stabilire una cooperazione tecnica tra centri di studio... dell'Est e dell'Ovest e industrie dello stesso ramo per la messa a punto più rapida di prototipi o procedimenti tecnici che possono essere oggetto di uno sfruttamento industriale in questi paesi o che possono essere ceduti sotto forma di licenza a paesi terzi..."

2) "Quanto alle forme che può assumere la cooperazione nel campo della produzione e della commercializzazione dei prodotti... a) accordi di sub-fornitura, in base ai quali una impresa occidentale (o orientale) incorpora nei suoi prodotti finiti determinati elementi fabbricati da una impresa orientale (o occidentale); b) la vendita di macchine e di attrezzature industriali, accompagnata da una assistenza tecnica (brevetti, licenze, missioni di tecnici) al cui pagamento si provvede con la consegna di prodotti fabbricati con quelle attrezzature e in base a quell'assistenza tecnica; c) lo scambio di brevetti e di assistenza tecnica... e la definizione di accordi di specializzazione validi sia nei loro mercati interni, sia nei mercati dei paesi terzi; d) la realizzazione in comune da parte di imprese dell'Europa orientale e occidentale di progetti industriali di complessi da realizzare in paesi terzi. Si prospetta infine la possibilità della coproduzione attraverso la creazione di imprese miste".

3) "... Tutto ciò, essendo frutto di riflessioni su tendenze già in atto... assume... un profondo significato politico... Malgrado la sua divisione tra Stati socialisti e Stati capitalisti, l'Europa potrà compiere sostanziali passi innanzi, verso l'unità".

Le conclusioni dell'economista del PCI sono di una logica stringente: dall'unità aziendale, cioè l'integrazione economica tra aziende occidentali e aziende sovietiche, si giunge all'unità politica, cioè l'unità tra gli Stati. Nelle prospettive dell'unità degli Stati europei indicate dal PCI cadono, infine, le differenziazioni "socialiste" propagandate per gli Stati dell'Europa orientale. La prospettiva per il PCI è, quindi, quella di mettersi al servizio di questa unità dell'imperialismo.

Ecco come da un episodio dall'apparenza "commerciale" emerge la prospettiva delle tendenze di sviluppo delle forze opportunistiche espresse dalla direzione del PCI, forze che si collegano direttamente alla stabilizzazione di determinati interessi capitalistici europei.

Ciò conferma il metodo di analisi impiegato da Lenin nei confronti del fenomeno social-sciovinista. Lenin trovò nei sovrapprofitti imperialistici la fonte di corruzione dei dirigenti opportunisti del movimento operaio. Oggi una fonte di sovrapprofitti imperialistici si va stabilendo nella integrazione tra aziende occidentali e aziende sovietiche, la cui produzione mista non è riservata ai loro singoli mercati ma, come ha precisato Peggio, anche ai "mercati dei paesi terzi", in generale rappresentati dalle zone arretrate. Una produzione "mista" automobilistica FIAT-URSS, ad esempio, può proprio offrire quest'ultima prospettiva. Basata su stabilimenti installati in Ucraina, dove la forza lavoro ha un prezzo minore che a Torino, può soddisfare non solo il mercato dell'Europa Orientale ma quello mediorientale, ad esempio. Le necessità di esportazione automobilistica, come oggi premono già sulla FIAT, domani potrebbero premere per le aziende ucraine appena si profilasse una certa saturazione del loro mercato interno. Avremmo allora un fenomeno di esportazione imperialistica composto da capitali europeo-sovietici aziendalmente integrati. Strettamente collegate a questa esportazione, come oggi lo sono alla creazione di un mercato europeo, quelle forze opportunistiche come il PCI si troverebbero a sostenerne la necessità, come già in parte fanno.

Oggettivamente si pongono, quindi, come propugnatrici del mercato imperialistico mondiale nel quale i gruppi capitalistici più forti realizzano quote di sovrapprofitti, pagati dai paesi più arretrati con le loro peggiorate ragioni di scambio e dal proletariato di quei paesi con una parte del suo plusvalore. L'opportunismo partecipa, quindi, a quella "divisione internazionale del lavoro" che tanto caldamente propugna e dalla quale vuol ricevere quelle "briciole" dei sovrapprofitti che gli permettono di sopravvivere come incancrenito fenomeno di corruzione in seno al movimento operaio.

Tracciata la prospettiva che collega strettamente le tendenze di sviluppo dell'opportunismo alle tendenze di sviluppo europeo ed imperialistico delle aziende occidentali e delle aziende sovietiche, ci resta da vedere in particolare la prospettiva delle tendenze di sviluppo del capitalismo italiano che già si è manifestata con l'accordo della FIAT.

Prima della recessione del 1963, la FIAT prevedeva un investimento che portasse ad un raddoppio della produzione di 1 milione di autovetture nel 1970.

Questo obiettivo era posto da una serie di ragioni, ma soprattutto da due:

a) necessità di abbassare i costi per ogni unità prodotta, e ciò poteva essere ottenuto aumentando la produzione standardizzata;
b) necessità di reggere la concorrenza con le aziende automobilistiche giganti, in particolare quelle americane.

Anche nelle più rosee previsioni, la FIAT non poteva pensare che il mercato italiano potesse assorbire 2 milioni di autovetture all'anno, anzi, pur ammettendo che il parco automobilistico si sarebbe raddoppiato in pochi anni, esso si sarebbe notevolmente "ringiovanito". Anche ammettendo un parco automobilistico di 10 milioni di unità raggiungibile in 5 anni (ipotesi limite), avremmo avuta una terribile crisi di saturazione poiché, raggiunta quella consistenza, il parco automobilistico avrebbe potuto negli anni futuri rinnovarsi al massimo per il 20%. Il piano FIAT era, dunque, un piano di esportazione, di espansione imperialistica. Sopraggiunta la recessione che ha frenato l'espansione del parco automobilistico italiano, gli investimenti previsti per il mercato nazionale si sono spostati nel mercato europeo orientale, in URSS, Polonia ed Jugoslavia. La maturità imperialistica del capitalismo italiano, che ha subito un enorme impulso dall'accumulazione di capitali realizzata nel "boom", lo spinge da un lato a penetrare nei mercati europei orientali, dove minore è la concorrenza americana, e dall'altro a fronteggiare l'invasione dei capitali americani.

"Un fiume di dollari minaccia l'economia europea", grida allarmato un settimanale italiano legato alla FIAT. L'allarme è molto interessato perché deve coprire e giustificare "l'operazione URSS" di fronte ai filistei piccolo borghesi, da decenni imbottiti di anti-sovietismo per quelle stesse ragioni economiche che oggi spingono la FIAT in URSS e che ieri la spingevano a cercare i dollari americani. In sostanza è vero che un fiume di dollari invade l'Europa, ma questo fiume si irradia in torrenti che penetrano in tutto il terreno del capitalismo europeo, lo irrigano, lo fanno gonfiare di capitali. Da questo terreno nascono piante miste, cioè gruppi economici che non sono americani ma neppure più europei, che sono diventati gruppi altamente internazionalizzati.

Questo prodotto della integrazione finanziaria imperialistica è bene individuabile dalla stessa esportazione di capitali USA in Europa. Nel 1962 i capitali esportati a lungo termine furono 2,5 miliardi di dollari, nel 1963 circa 3, nel 1965 ben 4,4. Contemporaneamente mutava la proporzione tra i capitali esportati a breve o medio termine e quelli esportati a lungo termine, a favore di questi ultimi.

Ciò caratterizza il processo di formazione di gruppi capitalistici in Europa che sono spinti alla ricerca di mercati. Dare una etichetta nazionale a questi gruppi non solo è semplicistico, ma non corrisponde alla realtà. Solo per necessità di astrazione scientifica possiamo, infatti, parlare di capitalismo francese, inglese, tedesco od italiano e ciò sempre per indicare tutta la struttura capitalistica (e quindi di grandi, medie o piccole aziende) di un determinato paese. Certamente tutta la struttura economica in Italia, ad esempio, può essere definita "capitalismo italiano", perché per tutta una serie di livelli aziendali non è ancora riscontrabile una intensa compenetrazione di capitali internazionali.

Ma questo non è più il caso delle grosse aziende capitalistiche. Per queste la concorrenza non è più nazionale ma internazionale, cioè assistiamo ad una concorrenza tra aziende internazionali.

Quindi solo in senso lato possiamo parlare di una tendenza di sviluppo del capitalismo europeo, od italiano, verso i mercati dell'Europa orientale, tendenza che sarebbe provocata dall'invasione finanziaria americana.

In realtà è lo sviluppo del capitalismo europeo, od italiano, che determina il processo di concentrazione a livello internazionale, che provoca la formazione di gruppi capitalistici internazionali dove si fondono capitali di varia provenienza, che attira i capitali provenienti dagli USA e che spinge, infine, la tendenza all'espansione nei mercati più deboli.

Ci troviamo di fronte ad un fenomeno di estrema maturità imperialistica.

L'accordo FIAT-URSS è solo un aspetto di un fenomeno molto più vasto che avremo occasione di esaminare dettagliatamente.

(Lotta Comunista, n. 5, giugno 1966)

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Attualità della via rivoluzionaria
(nel 50° dell'Ottobre)

Non c'è filisteo piccolo-borghese, oggi, che non riconosca la realtà storica della Rivoluzione d'Ottobre. È più che naturale, perché dietro tale riconoscimento si nasconde il tentativo di mummificare non solo la rivoluzione socialista ma tutto il senso storico della lotta di classe del nostro secolo. Il significato dell'Ottobre rosso può essere ritrovato solo nell'arco dei decenni che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito. È in tutta la storia della classe operaia che la Rivoluzione d'Ottobre trova la sua luminosa collocazione ed oggi, più che mai, a distanza di cinquant'anni, splende per la sua tangibile attualità.

Nella storia della lotta proletaria una rivoluzione ha un senso solo se i suoi insegnamenti diventano patrimonio della coscienza critica e scientifica dell'avanguardia operaia. Solo in questo modo un grandioso atto della lotta di classe può sfuggire all'azione corrosiva che, nel tempo, opera il travisamento opportunista.

La cultura borghese, di cui l'opportunismo non è che la manifestazione in seno al movimento operaio, è vecchia di secoli e sofisticata: perciò riesce a dominare la spontaneità operaia nel presente, così come riesce a mistificare gli avvenimenti passati sino ad adattarli ai suoi interessi di conservazione. Al proletariato deve interessare, quindi, l'insegnamento delle sue lotte e delle sue rivoluzioni più che la loro storia. E la lezione della Rivoluzione d'Ottobre può essere tratta soprattutto oggi, quando tutte le forze del capitalismo, da quelle dichiaratamente borghesi a quelle opportuniste del PCI, fanno a gara nel demolire nelle masse lavoratrici ogni idea di rivoluzione.

Non c'è dubbio che oggi ci troviamo in uno dei punti più bassi della situazione della classe operaia, in uno di quei punti che caratterizzano la fase controrivoluzionaria.

Leninisti conseguenti non abbiamo timore a riconoscerlo. Il proletariato internazionale sta pagando duramente la sua incapacità, e l'incapacità delle sue avanguardie, a portare avanti la strada iniziata dalla Rivoluzione d'Ottobre.

Nel 1917 Lenin ed il Partito bolscevico ingaggiarono il proletariato russo nella battaglia gigantesca della rivoluzione socialista internazionale.

La Russia doveva essere il primo reparto d'assalto per aprire la strada all'esercito proletario europeo, senza il quale le fortezze del capitalismo non potevano essere attaccate. Il proletariato europeo, in preda alla socialdemocrazia e al massimalismo, non seguì la Russia, e la controrivoluzione, basata sulle forze interne dello stalinismo, spazzò via l'avamposto bolscevico. Questa è stata la più grande sconfitta del proletariato internazionale nella sua storia, una sconfitta molto più grande di quella della Comune di Parigi. Tanto più grande doveva essere l'ondata controrivoluzionaria.

Sotto molti aspetti l'acquisizione di una coscienza rivoluzionaria negli operai più avanzati deve essere la consapevolezza delle proporzioni di una sconfitta che non ha precedenti storici.

È inutile piangere nelle condizioni attuali, è inutile trastullarsi con i discorsi sull'"integrazione" operaia. Un marxista è tale quando è un materialista che sa analizzare scientificamente la realtà, quando è un realista che sa ed ha la volontà di trasformare la realtà.

Dire che oggi ci troviamo in una fase controrivoluzionaria non significa dire che non c'è nulla da fare. Anzi, da fare c'è tanto! Le forze proletarie per la rivoluzione sono diventate immense, sono diventate un esercito sconfinato. Occorre dare loro una coscienza politica, una coscienza leninista.

Ma per poterlo fare bisogna avere ben chiara la situazione in cui si trovano. Qual è la situazione del proletariato nel mondo? Per poter rispondere esattamente a questa domanda occorre avere ben chiaro che in tutto il mondo sono ormai predominanti i rapporti capitalistici di produzione.

In nessun paese esiste una economia socialista come vorrebbero far credere i mistificatori filosovietici e filocinesi. Ma in ogni paese esiste un proletariato che non ha interessi contrastanti con quello degli altri paesi.

Dall'Europa all'America, dall'URSS alla Cina, dall'Asia all'Africa, un comune interesse di classe lega oggettivamente gli operai di ogni razza e colore. L'estensione del capitalismo ha fatto dell'internazionalismo una realtà indistruttibile. Il giorno che gli operai di ogni paese prenderanno coscienza della loro natura internazionalistica il capitalismo avrà certamente i giorni contati.

I fatti sono lì ogni giorno a dimostrarlo. Dai fatti gli operai traggono l'esperienza fondamentale per poter comprendere i loro interessi internazionalistici. Certamente non possono bastare i fatti. La coscienza può concretizzarsi solo nell'organizzazione politica, nel partito leninista internazionale, ma è nel riflesso degli avvenimenti sulla classe operaia che l'organizzazione trova un solido terreno di sviluppo.

I fatti dimostrano ad ogni operaio la natura capitalistica dei paesi cosiddetti "socialisti". Ogni giorno l'economia sovietica, polacca, rumena, jugoslava, ecc. si integra sempre più nel mercato mondiale capitalista. Si giunge alla partecipazione di capitali statunitensi-italo-sovietici nella produzione per il mercato sovietico e nello sfruttamento della classe operaia dell'URSS.

Si giunge al punto che Agnelli esalta l'economia polacca e Ockab esalta la FIAT! Intanto in Polonia, in Russia, in Jugoslavia, gli operai sfruttati da questa integrazione capitalistica rispondono con manifestazioni di scioperi, ammessi ormai anche dalla stampa ufficiale.

L'integrazione economica determina pure una integrazione a livello imperialistico. Si giunge a quella che i cinesi chiamano Santa Alleanza sovietico-amerícana in cui le superpotenze imperialistiche si accordano a danno delle potenze minori, tra cui la Francia, e dei capitalismi più deboli, tra cui la Cina, per dominare il mondo, per dettare la loro pax nucleare.

Ciò provoca una forsennata lotta tra i vari gruppi imperialistici e capitalistici, una corsa alla creazione di gigantesche concentrazioni industriali e finanziarie, una convulsa concorrenza per l'egemonia dei mercati regionali e delle zone economiche. Stati Uniti e URSS sono d'accordo contro la Cina e riforniscono di armi l'India, la Cina ha in comune con il Giappone rivendicazioni territoriali contro l'URSS e sostiene l'unificazione tedesca contro URSS e Stati Uniti che non la vogliono, il Giappone invia capitali per iniziative industriali in Siberia e diventa la terza potenza mondiale, la Romania si accorda con la Germania di Bonn mentre Polonia ed URSS attaccano il revanscismo tedesco che, d'altra parte, risolve la sua crisi economica con la penetrazione commerciale nel mercato russo e orientale. Francia, Cina e Germania, intanto, sono contro il progetto sovietico-americano sulle bombe H, ecc., ecc.

Il discorso potrebbe continuare su questo argomento per alcune pagine. Pensiamo, però, che già basti a dimostrare che il proletariato di ogni paese può vedere proprio nei fatti la falsità della propaganda che ogni Stato fa in nome del "socialismo", della "democrazia", ecc. In realtà ogni Stato persegue una politica confacente agli interessi della propria classe dominante e privilegiata, con la quale la classe operaia non ha niente in comune.

Il punto culminante di tutte queste contraddizioni imperialistiche lo troviamo, poi, nel Vietnam, dove la più forte potenza imperialista del mondo, gli Stati Uniti, sta massacrando un popolo, non per respingere l'inesistente comunismo di Ho Chi Minh o l'ancora più inesistente minaccia di una Cina neppure in grado o in volontà di fare una giacobina guerra rivoluzionaria per i suoi territori nazionali, ma solo per stabilire il dominio del dollaro in Asia.

Nel Vietnam vediamo il senso profondo della cosiddetta "coesistenza pacifica", Questa non è altro che una spudorata invenzione di partiti che osano ancora definirsi comunisti per mascherare la realtà della suddivisione imperialistica del mondo.

In questa situazione generale viene ad inserirsi la situazione particolare del proletariato italiano. Mai come in questo momento è apparsa chiaramente la natura dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra. Più di un secolo di lotte operaie è stato dilapidato da questi gruppi che hanno strumentalizzato a fini di "inserimento" nel sistema borghese tutti i sacrifici, tutte le aspirazioni, tutta la sprovveduta fiducia delle masse lavoratrici.

Da un lato, con il PSU, abbiamo un apparato di governo e di sottogoverno che amministra per l'altrui e per il proprio conto gli interessi del capitalismo. Dall'altro, con il PCI e il PSIUP, vi è una socialdemocrazia di ricambio rimodellata sul "cretinismo parlamentare" e sulla democrazia borghese.

Purtroppo il movimento operaio ha espresso questi gruppi burocratici che di fatto, anche per la loro posizione sociale, appartengono ormai alla classe dominante.

All'emergere di questa piccola borghesia fa riscontro, in tutta la società, l'aumento di una serie di strati privilegiati che giorno per giorno vedono rafforzato il loro tenore di vita, mentre quello degli operai produttivi diminuisce.

Come sempre il sistema capitalista ha dimostrato di avere la forza e la capacità di catturare, con il tradizionale piatto di lenticchie, gli apparati dirigenti dei partiti opportunistici. La classe operaia ha ormai coscienza di questo fatto ma, spesso, rifugiandosi nell'assenteismo, non sa trovare la via per risolverlo. L'assenteismo finisce, perciò, col fare il gioco del sistema borghese. Invece, oggi più che mai, la soluzione alla degenerazione socialdemocratica è il comunismo, è la concezione marxista della rivoluzione.

Si è creduto troppo alla spontaneità delle cose e ciò ha favorito la creazione dei miti e dei piccolo borghesi che li amministrano.

Il comunismo è, invece, la coscienza critica del movimento operaio ed il punto di raccolta della coscienza, l'organizzatore della coscienza, è il partito leninista.

Per queste ragioni, per questo momento di riflessione critica nella classe, per questa necessità di ritrovare l'organizzazione, l'attualità di Lenin e del leninismo è il più grande insegnamento che ci resta a cinquant'anni di distanza dall'Ottobre comunista.

(" Lotta Comunista " n. 13-14, marzo-aprile 1967)

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Contro la guerra, rivoluzione!

Il capitalismo prepara, come sempre, le condizioni della guerra. Si può dire di più: il capitalismo è di per se stesso la guerra e, siccome tutto il mondo è capitalistico, la guerra è oggi la condizione permanente dell'umanità. Dal primo decennio del secolo lo sviluppo del capitalismo ha finito d'essere relativamente pacifico perché è stato questo sviluppo stesso a produrre l'imperialismo e a far sì che i paesi capitalistici più sviluppati avessero la forza economica, e quindi militare, di imporre le loro necessità di espansione e i loro interessi ai paesi capitalistici meno sviluppati e quindi più deboli o a paesi coloniali i quali subivano un processo di diffusione del capitalismo nel loro interno.

In questo quadro di necessità dello sviluppo capitalistico nel mondo ogni tendenza economica (correnti del commercio internazionale, esportazione di capitali, industrializzazione di zone arretrate, egemonia nei mercati, ecc.) diventa, da allora, motivo di tensione e di lotta tra i vari paesi capitalistici, tra quelli forti e quelli deboli, e soprattutto tra quelli imperialistici. Concepire uno sviluppo pacifico ed armonico nel mondo, permanendo gli attuali rapporti di produzione e di scambio, è una pura utopia piccolo borghese, una ideologia che, più o meno consapevolmente, tenta di nascondere una lampante e brutale realtà. E non a caso, mai come oggi sono fiorite tante ideologie "pacifiste" e tanti piani "populisti" sul commercio internazionale, sulle "nazioni unite", sulla "mutua assistenza", ecc. Ma quello che è più utopistico ancora e più reazionario è lo scambiare la foglia per l'albero, è l'indicare solo un effetto particolare e isolato dell'imperialismo come la causa prima, fondamentale ed unica delle crisi, delle guerre parziali o generali. Chi non riesce o non vuole capire la natura generale e mondiale dell'imperialismo inevitabilmente finisce o finirà con l'essere un complice dell'imperialismo, un suo propagandista, un suo soldato, un suo partigiano. È un destino storico a cui non sfugge nessuno e che ha visto ogni corrente politica, anche quella più apparentemente di sinistra, diventare una corrente dell'imperialismo ed una "cinghia di trasmissione" nel contribuire a collocare il proletariato nell'una o nell'altra trincea dell'imperialísmo.

Solo i marxisti conseguenti, solo i leninisti sono riusciti a sottrarsi a questo condizionamento dell'imperialismo e a trasformare una guerra imperialista in una rivoluzione proletaria perché si sono schierati contro tutti i fronti dell'imperialismo, contro tutti i paesi capitalistici grandi o piccoli, contro tutte le correnti "interventiste", da quelle "democratiche" a quelle "socialiste". Ma i bolscevichi hanno potuto essere dei marxisti rivoluzionari conseguenti perché conoscevano bene la natura dell'imperialismo, perché sapevano bene che la pace e la guerra non sono altro che manifestazioni organiche della vita capitalistica in tutto il mondo.

Decenni di controrivoluzione imperante hanno impedito che il patrimonio bolscevico potesse diventare patrimonio della classe operaia.

È bastato oggi che una delle tante guerre prodotte dal sistema capitalistico esplodesse nel Medio Oriente, perché tutto il potenziale imperialistico e controrivoluzionario di cui è carica la società italiana straripasse ad allagare ogni settore della vita politica, dai partiti tradizionali borghesi a quelli socialdemocratici, a quelli che si proclamano comunisti, a quelli, persino, che dicono di essere alla "sinistra" del PCI. Ogni partito ed ogni gruppo è stato, finalmente, messo alla prova dei fatti, ed ogni partito ed ogni gruppo è risultato essere, per chi ancora non lo sapeva, una delle tante componenti del sistema imperialistico, uno dei tanti altoparlanti della ideologia imperialistica. Abbiamo sentito parlare di "questione ebraica", di "popolo ebreo" e di "popoli arabi"! Si è arrivati persino, da parte di gruppi maoisti, castristi e trotskisti a parlare di "popoli arabi" in lotta contro l'imperialismo! Tutti si sono dimenticati una piccola inezia che una elementarissima analisi marxista permette oggi di constatare: in Egitto esiste una borghesia e un proletariato, in Israele esiste una borghesia e un proletariato!

Ci troviamo, quindi, di fronte a due Stati tipicamente borghesi che sono entrati in un conflitto tipicamente borghese. La borghesia egiziana si è scontrata con quella israeliana per motivi economici, territoriali e politici. La borghesia israeliana ha portato avanti la sua guerra per gli identici motivi. In questo contesto sociale non ha alcun interesse, per un marxista, per un proletario, sapere chi è stato l'aggredito o l'aggressore, perché in ogni guerra generata dal capitalismo l'aggressore è la borghesia e l'aggredito è il proletariato ed il contadiname povero, mandati a sbranarsi sulle rocce del Carso, nelle trincee di Verdun, nel deserto del Sinai. 1 lavoratori arabi e i lavoratori israeliani non hanno contrasti di interessi, anzi hanno la comune sorte di essere sfruttati dai borghesi de Il Cairo e di Tel Aviv, i quali sono legati alla fitta rete dei capitali investiti nel Medio Oriente che fa capo alle nuove e alle vecchie mecche dell'imperialismo: Washington, Londra, Parigi, Bonn, Roma, Mosca, Tokio. Nel Medio Oriente, nel petrolio, nelle pipelines, nel cotone, nella diga di Assuan, nell'agricoltura meccanizzata dei kibbutz, nell'industria tessile, in quella siderurgica, in quella chimica, sono investiti dollari, sterline, franchi, marchi, yen, rubli. Stati Uniti ed URSS, Francia ed Inghilterra, Germania e Italia, Giappone e Olanda investono direttamente o attraverso la Banca Mondiale, commerciano, prestano capitali ai vari Stati mediorientali, vendono migliaia di aerei, di carri armati, di cannoni. La "democratica" America investe e presta capitali ai paesi arabi e ad Israele, la "socialista" Russia vende armi e fa prestiti al 2,5 per cento ai paesi arabi e contemporaneamente ha accordi economici con Israele. Così è per tutte le altre potenze imperialistiche, grandi o piccole: con il risultato che con questi sporchi traffici si impinguano le borghesie d'Oriente e d'Occidente, in omaggio alla "democrazia" e al "socialismo" da dare in pasto ai gonzi come le classiche briciole della tovaglia, e si rafforzano nel loro bellicoso appetito le borghesie araba ed israeliana che hanno iniziato a gustare le delizie del banchetto. I lavoratori pagano, come sempre, lo sconcio di questo sistema. Lo pagano nelle metropoli imperialistiche, lo pagano nel Medio Oriente.

I lavoratori egiziani delle industrie tessili hanno visto spietatamente represse le loro rivendicazioni e crudelmente imprigionati ed assassinati i loro compagni rivoluzionari, quei veri comunisti che hanno denunciato il falso "socialismo" di Nasser.

I lavoratori israeliani, con scioperi e disoccupazione, hanno dovuto pagare la grave crisi del "paradiso" dei kibbutz.

La borghesia araba, allevata e foraggiata negli intrallazzi con gli imperialisti europei e americani, da tempo ha aggiunto la carta sovietica al suo gioco. Quella israeliana, la carta stalinista l'ha giocata e spesa bene nel 1947, quando URSS ed USA appoggiavano il sionismo per scalzare dal Medio Oriente le esauste potenze anglo-francesi che rispolveravano persino il panarabismo, lo armavano, lo organizzavano per rimanere a galla... sul petrolio. Lo Stato di Israele viene al mondo non con la benedizione di jehova ma con quella di Stalin e Truman. Poi, nel 1956, abbandona i padrini, si allea con Eden e Mollet e marcia verso Suez. La VI Flotta blocca l'operazione. Il Medio Oriente è ormai una zona d'influenza americana, dove i russi entrano solo per fare il gioco degli Stati Uniti. Infatti il petrolio diventa quasi tutto a stelle e strisce. Dovranno passare dieci anni prima che il rafforzamento del capitalismo europeo presenti il tentativo di reingresso concorrenziale nel Medio Oriente e provochi un altro squilibrio dei rapporti internazionali ed interni nella zona.

Lo schieramento degli Stati è rimesso in movimento, l'URSS ha uno spazio per le sue manovre, gli Stati Uniti allargano le contraddizioni della loro egemonia. In tutto questo processo le borghesie araba e israeliana giocano un ruolo secondario ma indispensabile. Incapaci per debolezza e per concorrenza di impadronirsi del petrolio possono, però, da buone ruffiane, preparare le truppe per una guerra che, oggi, solo le potenze imperialistiche potrebbero sfruttare. Abili a mercanteggiare favori e capitali sono leste a tradurre questi e quelli in ideologie per imbottire il cranio dei lavoratori, che di diverso non hanno neppure la razza, ma solo il pulpito dell'oppio religioso.

Solo volgari mentitori o inguaribili imbecilli possono scovare un briciolo di "socialismo" in questa commedia delle idee e in questa tragedia degli uomini! Vi è poi chi, addirittura, ha visto in questa guerra tra due capitalismi, collegati con mille fili a tutte le potenze imperialistiche, in questa guerra che è il risultato proprio dell'imperialismo, una manifestazione di lotta contro l'imperialismo! Qui la mistificazione raggiunge il colmo. Per questa gente, che ha la spudoratezza di proclamarsi marxista, antimperialista non è più la rivoluzione internazionalista dei proletari contro le rispettive borghese ma il massacro tra proletari in nome delle borghesie che li sfruttano e li mandano al macello.

Ecco a quale aberrazione può giungere l'abbandono del marxismo e del leninismo. Ecco a quali conclusioni politiche conduce il rinnegamento della strategia leninista della questione nazionale e la sua sostituzione con la teoria maoista del "fronte antimperialista". Che socialdemocratici dichiarati scoprissero la trincea "democratica" per attestarvisi era più che naturale, perché tale è la loro vocazione borghese. Che i socialdemocratici del PCI e del PSIUP seguissero comunque la politica imperialistica dell'URSS rientrava nella loro tradizione, nella loro logica opportunista. Mancavano all'appello i maoisti, i filocinesi a confermare il ruolo da noi individuato al loro apparire. Puntuali, come gli altri, hanno scelto non il proletariato mediorientale ma la borghesia araba, non l'internazionalismo ma la guerra, non la rivoluzione di classe che unisca arabi e israeliani ma la lotta tra Stati, non il disfattismo rivoluzionario di Lenin ma il nazionalsocialismo di Nasser.

Lo schieramento dell'opportunismo è oggi in Italia completo. Questi sono i fatti incontrovertibili che ogni operaio può vedere.

E in questi fatti ogni operaio può concretamente vedere qual è il destino che lo aspetta, mano a mano che si allarga la crisi dell'imperialismo e che si accentua la lotta tra le potenze imperialistiche e tra i giovani capitalismi a queste collegati.

Il proletariato deve, quindi, prepararsi a difendere i suoi interessi storici rifiutando ogni tipo di adesione al proprio e all'altrui Stato e lottando sulla strada maestra dell'insegnamento internazionalista di Marx e di Lenin: " contro la guerra, rivoluzione "!

(" Lotta Comunista " n. 15-16, maggio-gíugno 1967)

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L'"interventismo di sinistra" a fianco della borghesia araba

Nel precedente numero di "Lotta Comunista" abbiamo individuato nei gruppi maoisti, castristi e trotskisti una componente dell'"interventismo", accanto a quella socialdemocratica filoisraeliana, nella guerra del Medio Oriente.

È utile analizzare questo "interventismo di sinistra", perché in esso sono contenuti tutti quegli elementi di mistificazione e di avventuriamo piccolo borghese che sono sempre stati presenti nella storia del movimento operaio, di quello italiano in particolare.

Nella critica al riformismo e alla socialdemocrazia, il marxismo rivoluzionario ha spesso trovato il terreno ingombro da correnti che alla formale polemica antiriformista erano mosse da istanze sociali non proletarie. Altrettanto spesso la dinamica delle lotte di classe in campo internazionale si è, però, incaricata di sgombrare il campo e di rigettare quelle correnti nel loro alveo naturale. Alla prova ferrea dell'internazionalismo, cioè quando gli interessi di classe messi in gioco dalla guerra sono giganteschi e quando le scelte non permettono più la demagogia parolaia, le correnti pseudosinistre sono inevitabilmente bocciate e rivelano la loro intima natura "interventista".

"Rivoluzionarie" a parole, diventano "borghesi" nei fatti, cioè scelgono la guerra invece della rivoluzione. E' una prova, quella dell'internazionalismo, infallibile, ieri come oggi. Ma poiché non vogliamo che la nostra possa sembrare una affermazione non dimostrata, passiamo subito la parola ai gruppi "interventisti".

"La lotta dei giovani rivoluzionari italiani è la stessa lotta dei popoli arabi", confessa "Nuova Unità" del 17 giugno 1967. Il numero del 24 giugno 1967 si spinge ancora più avanti e afferma, per chi non avesse ancora compreso cosa si intende per "popoli arabi": "L'unità tra i popoli arabi, che si era creata nel momento in cui Israele minacciava l'aggressione, si è fatta ancora più stretta... È una tempesta rivoluzionaria contro l'aggressione che scuote tutto il Medio Oriente e travolge nemici e falsi amici".

E per non essere frainteso l'organo filocinese proclama: "La lotta che i popoli arabi conducono contro gli impermalisti anglo-americani è una lotta di classe".

"Nuova Unità" ha applicato nel modo più conseguente la teoria maoista del "popolo oppresso", concepito come "classe oppressa". L'ha applicata in un caso concreto e contingente, come quello della guerra del Medio Oriente, ed il risultato non poteva essere più chiaro. La lotta di Stati borghesi come quelli arabi contro un altro Stato borghese come quello israeliano e contro due Stati imperialisti come quelli inglese e americano è diventata una lotta di classe, una lotta di classe che ha finito col diventare identica a quella dei "giovani rivoluzionari italiani"! Di colpo, "Nuova Unità" ha trasformato i "popoli" dei vari paesi arabi in un indistinto e generico gruppo sociale, ha sciolto le varie classi antagonistiche che li compongono, ha annullato la natura delle classi dominanti che esercitano il potere politico negli Stati arabi e si è identificata con la loro lotta.

Davvero non bisognava attendere il 1967 per sentire tali "novità"! Le avevano già dette i vari "interventisti" alla Labríola e alla Mussolini quando identificavano la loro causa di "giovani rivoluzionari italiani" alla guerra "proletaria" del "popolo d'Italia" contro l'imperialismo di turno, quello "prussiano"! L'altro gruppo maoista, quello di "Rivoluzione Proletaria", non si è lasciato distanziare sul traguardo "interventista", anche se ha cercato di giungervi con un'argomentazione più elaborata, così come si trova esposta nel numero 6 del giugno 1967. Per "Rivoluzione Proletaria", il tumultuoso sviluppo economico dello Stato d'Israele "sotto il controllo e il dominio del capitale finanziario americano" scosso da gravi contraddizioni interne e da crisi tenta di trovare uno sbocco in una politica di espansione verso i paesi arabi. L'economia israeliana sarà avviata verso il potenziamento e il crescente sviluppo dell'industria bellica. Israele è quindi un paese capitalistico con un elevato grado di sviluppo "che, per le sue esigenze di espansione imperialistica, ha bisogno di territori di conquista che amplino i suoi mercati e gli assicurino un ulteriore afflusso di mano d'opera a basso costo". Lo stesso Stato d'Israele, secondo questa tesi, sta emergendo come "nuova realtà imperialistica".

Contro questa "nuova realtà imperialistica", contro lo Stato israeliano imperialista, il "movimento antimperialista dei popoli arabi" non deve - secondo "Rivoluzione Proletaria" - ripetere l'errore di concepire la "guerra antimperialista" con criteri convenzionali ma deve acquisire la "concezione tattica e strategica della guerra popolare" ed aprire "un nuovo Vietnam nella zona nevralgica del Medio Oriente", "nel cuore del nuovo Stato israeliano"; cioè una guerriglia che "potrà aprire ed acutizzare le contraddizioni più laceranti nel contesto stesso della società israeliana" sino alla liquidazione dello Stato israeliano "come Stato ebraico". La tesi si conclude con l'affermazione che "lo sviluppo della guerra popolare rivoluzionaria farà giustizia degli equivoci della politica revisionista di alleanza con le cosiddette borghesie nazionali, la cui sola funzione in ultima istanza è quella di perpetuare il dominio imperialista nel Medio Oriente attraverso la cooperazione sovietico-americana".

Abbiamo citato estesamente queste posizioni perché non ci si possa rimproverare di averne taciuto qualche aspetto quando diciamo che difficilmente si poteva escogitare qualcosa di più contraddittorio per giustificare un "interventismo" al cento per cento.

Cerchiamo di dipanare una tale accozzaglia di contraddizioni, di errori di analisi e di definizione, di affermazioni inventate e non provate, di parole senza senso. Lo Stato d'Israele è uno Stato capitalistico come capitalistico è lo sviluppo della sua economia, soggetta ad espansioni e crisi, premuta, come tutte le economie capitalistiche, da esigenze di sbocchi di mercato interno ed esterno. D'accordo. Ma le stesse caratteristiche possono essere riscontrate nell'economia egiziana, ad esempio. "Rivoluzione Proletaria" si guarda bene dal parlarne.

Parla, è vero, di "borghesie nazionali", ma non dice niente sulla natura sociale dell'economia che queste classi esprime. L'economia egiziana, ad esempio, che esprime la "borghesia nazionale" egiziana è capitalistica o non lo è? E se non lo è che tipo di economia è?

"Rivoluzione Proletaria" attua il vecchio trucco del silenzio su questo punto fondamentale, senza la cui soluzione non è possibile tracciare neppure un giudizio marxista su un fenomeno così complesso come una guerra, prima ancora di assumere una posizione militante.

La verità è che "Rivoluzione Proletaria", parlando di "paesi arabi" e di "movimento antimperialista dei popoli arabi", cerca di nascondere che nei paesi arabi, come in Israele, vi sono classi sociali ben definibili quali borghesia (alta, media e piccola), proletariato e strati di contadini poveri semiproletari.

L'Egitto, ad esempio, è un "paese arabo" dove vi è un "popolo" che, marxisticamente, è una "popolazione" comprendente classi borghesi e piccolo borghesi, classe operaia e strati contadini semiproletari. Quali classi detengono i mezzi di produzione, e quindi il potere politico, in Egitto? Nessun maoista, castrista o trotskista risponde chiaramente a questa domanda. Non può, pena vedere saltare in aria tutto il suo castello di menzogne. A mezza bocca e tra mille contorcimenti, arriva a dire: "una borghesia nazionalista", "antimperialista".

In termini marxisti e leninisti, ciò non vuol dire altro che "un giovane capitalismo" che lotta contro capitalismi più maturi, cioè imperialistici.

Lo sviluppo economico israeliano è "sotto il controllo e il dominio del capitale finanziario americano". Se ciò è vero, o Israele è una "semicolonia" o è un "giovane capitalismo" con fortissimo investimento straniero. In nessun caso potrebbe essere definito un "giovane imperialismo". Per tutti i paesi che sono "dominati" dal "capitale finanziario americano" i maoisti, e "Rivoluzione Proletaria", indicano "l'indipendenza nazionale" contro l'imperialismo americano. Arrivano persino ad indicare per l'Italia un tale obiettivo, ostinandosi a giudicare la borghesia italiana "serva dell'imperialismo USA", tacendo naturalmente sull'esportazione imperialistica di capitali italiani in tutto il mondo, come noi da tempo documentiamo indicando nell'Italia una "realtà imperialistica", anche se non proprio "nuova". Non si capisce, allora, perché "Rivoluzione Proletaria" non applichi la stessa linea al Medio Oriente, e ad Israele particolarmente. O meglio, si capisce quale sia la serietà politica dei maoisti nell'applicazione della loro "linea generale".

Da buoni opportunisti, oggi dicono una cosa, domani un'altra.

L'Italia è "dominata" dal capitale USA, come lo è Israele secondo le loro affermazioni. L'Italia è un paese che deve lottare per la sua "indipendenza nazionale" contro l'imperialismo americano, Israele è invece un paese imperialistico esso stesso! Per i maoisti, evidentemente, conta poco che l'Italia rientri tra le prime dieci potenze economiche del mondo e che Israele non sia neppure tra le prime trenta, così come conta pochissimo il criterio marxista-leninista di definizione dell'imperialismo. Illuminati dal faro della "rivoluzione culturale" i maoisti di "Rivoluzione Proletaria" pretendono di definire l'imperialismo quando non conoscono neppure le leggi più elementari del funzionamento di una economia capitalistica. Memori del motto maoista sulla priorità della "politica" non si curano neppure di tentare una sia pur minima analisi economica. Scambiano, addirittura, la politica espansionistica, e quindi aggressiva, del capitalismo israeliano con i caratteri oggettivi dell'imperialismo, scambiano la politica nazionalistica dello Stato israeliano con la maturità imperialista della sua economia.

E giungono al ridicolo di indicare nell'industria bellica israeliana il segno di tale maturità, quando tutto il mondo sa che l'industria bellica israeliana esporta armi leggere e che lo Stato israeliano importa armi pesanti (aerei, carri armati, ecc.) per equipaggiare il suo esercito. Nella guerra del Medio Oriente hanno sparato, su tutti i fronti, armi importate dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dall'URSS, dalla Cecoslovacchia.

Se bastasse la tendenza espansiva, e quindi aggressiva, di uno Stato per qualificarlo imperialista, tutti gli Stati del mondo sarebbero imperialistici e se bastasse la tendenza di aggressione militare di uno Stato per definirlo imperialista, ben pochi Stati del mondo sfuggirebbero a tale definizione.

Ogni economia capitalistica è espansionista, per sua intima natura e per sua necessità, ed ogni Stato non fa che rifletterne le tendenze oggettive. Ciò spiega perché tra gli Stati del cosiddetto "campo socialista" sia ben presente, come dovrebbero ben sapere i redattori di "Rivoluzione Proletaria", una serie di tendenze espansionistiche e maturino una serie di focolai di tensioni e di conflitti. Noi marxisti ci guardiamo bene, in presenza di tali fenomeni, dal definire quegli Stati "imperialistici", così come non definiamo "imperialistica", ma semplicemente "capitalistica" la Cina.

Di tali Stati solo l'URSS deve essere definita "imperialistica", dato che ha ormai raggiunto una maturità economica che la costringe ad esportare capitali e a lottare per la ripartizione del mercato mondiale.

Gli stessi Stati del "Terzo Mondo", così caro ai redattori di "Rivoluzione Proletaria", al raggiungimento della loro indipendenza, all'atto stesso della loro costituzione, hanno subito sprigionato una serie di tendenze che a volte sono giunte a scontri armati. Basti l'esempio della guerra indo-pakistana.

Il quadro generale in cui si manifestano questi conflitti è quello della fase imperialistica che vede le maggiori potenze lottare per la ripartizione del mercato mondiale. Ciò significa che le cause economiche e le forme giuridiche (confini, ecc.) dei conflitti dei "giovani capitalismi" sono storicamente originate dall'imperialismo. Il Medio Oriente non rappresenta di certo un'eccezione.

Ma, in definitiva, è l'imperialismo, in quanto diffusione dei rapporti di produzione capitalistici in economie precapitalistiche, come ben videro Marx e Lenin, la causa prima del formarsi dei "giovani capitalismi".

In questa dialettica cause "esterne" e cause "interne" si intrecciano e creano situazioni complesse e particolari, per cui si può dire contemporaneamente che un conflitto militare, tra due o più Stati capitalistici ma non ancora imperialistici, è una tipica guerra borghese ed un prodotto dell'imperialismo. Guerra borghese perché scontro di interessi tra due o più "borghesie nazionali" antagonistiche; prodotto dell'imperialismo perché le varie potenze imperialistiche, più o meno alleate a questa o a quella "borghesia nazionale", sono direttamente interessate a tali conflitti la cui dinamica rientra nella loro strategia di lotta per la ripartizione economica del mercato mondiale.

Non c'è guerra, da quando il mondo è entrato nella fase imperialistica che non veda la presenza delle varie potenze imperialistiche. Ma perché il marxismo non definisce tutte queste guerre "imperialistiche"? Perché, pur registrando la inevitabile presenza delle varie potenze imperialistiche, queste guerre sono caratterizzate dallo scontro tra Stati borghesi non ancora imperialistici.

Le guerre balcaniche che precedettero la prima guerra mondiale imperialista furono tipiche guerre borghesi, in cui i problemi delle varie nazionalità venivano ad esprimere le esigenze di sviluppo nazionale dei vari capitalismi, e come tali giudicate da Lenin. La posizione proletaria doveva, per Lenin, essere internazionalista e non solo contro le potenze imperialistiche ma pure contro le borghesie nazionali.

Il maoismo non ha ancora spiegato perché ciò non valga per il conflitto indo-pakistano o arabo-israeliano. Ma quello che non spiega l'ideologia maoista lo spiegano gli interessi dello Stato cinese. Cercare di confondere le carte e parlare di "movimenti antimperialisti dei popoli arabi" è solo un gioco di parole. Oggettivamente ogni "giovane capitalismo", per il fatto stesso che tende a diventare "grande", è "antimperialista" nel senso che, alla lunga, tende ad indebolire le attuali potenze imperialistiche. Ma non per questo il proletariato deve appoggiarlo. Solo il proletariato è fondamentalmente antimperialista perché è fondamentalmente anticapitalista.

Ciò che vale per la fase di lotta per l'indipendenza dalla dominazione coloniale o semicoloniale, vale tanto più ad indipendenza raggiunta. Ma nella stessa fase di lotta per l'indipendenza, la condizione prima di un'effettiva incidenza antimperialista risiede nella direzione proletaria, con un chiaro programma marxista e con un'autonomia organizzativa di classe, della stessa rivoluzione borghese. Solo una decisiva lotta per la conquista di una direzione proletaria permette, infine, di stabilire un'egemonia rivoluzionaria sulle masse dei contadini poveri, destinati dallo sviluppo capitalistico ad essere in gran parte proletarizzati. Un momento importantissimo di questa lotta è la demolizione dell'ideologia borghese e della sua influenza sulle masse operaie e sulle masse contadine, ideologia che si manifesta con il concetto di "popolo" e con la negazione degli antagonismi di classe nel seno stesso della società coloniale o semicoloniale. Nelle sue punte estreme questa ideologia giunge persino a negare le classi e ad utilizzare, in questo senso, il concetto di "popolo oppresso".

La lotta per affermare una direzione proletaria passa, quindi, obbligatoriamente attraverso l'attacco all'ideologia borghese e alla concezione di "popolo". Anche sotto questo aspetto le correnti maoiste, castriste e trotskiste si rivelano come appendici delle ideologie borghesi dei "giovani capitalismi". Teorizzano una lotta "antimperialista" che non è nient'altro che la lotta dei "giovani capitalismoi". Introdurre, per il Medio Oriente, la "guerra rivoluzionaria" e la "guerriglia" non sposta di un centimetro la natura sociale nel conflitto in corso. La "guerra rivoluzionaria" è proletaria quando è diretta da una dittatura del proletariato, cioè da un potere di classe che può utilizzare varie forme di lotta armata, da quelle convenzionali a quelle guerrigliere. Ma è la natura di classe del potere rivoluzionario che qualifica le forme di lotta armata e non viceversa. Nella seconda guerra mondiale imperialista vi sono stati movimenti di guerriglia composti certamente da proletari, la cui direzione però è stata quella dell'antifascismo borghese. Né, d'altra parte, la presenza e l'estensione dei movimenti di guerriglia ha cambiato la natura della guerra imperialista, poiché solo la trasformazione di questi movimenti da antifascisti a rivoluzionari, da direzione borghese a direzione proletaria, poteva trasformare non la natura ma il corso della guerra imperialista in una guerra civile. Non si vede, quindi, perché la bacchetta magica castro-maoista della "guerriglia" dovrebbe trasformare la natura della guerra del Medio Oriente, che rimane conflitto borghese anche col mutamento delle forme militari in cui è combattuto. E tanto più lo rimarrebbe nei piani castro-maoisti che si limitano alla "lotta antimperialista dei popoli arabi" e non pongono l'obiettivo di una direzione proletaria.

Certamente, anche la guerra del Medio Oriente potrebbe trasformarsi in guerra civile, in autentica lotta antimperialista, in rivoluzione socialista, ma solo come risultato della iniziativa di un partito comunista internazionalista che ponesse l'obiettivo della distruzione degli Stati borghesi arabi ed israeliano, dell'eliminazione delle borghesie mediorientali, dell'unificazione tra classe operaia araba e israeliana e della costituzione di uno Stato socialista mediorientale. In una trasformazione rivoluzionaria di questa natura, diretta ed egemonizzata dal proletariato, le forme militari di attuazione sarebbero secondarie in confronto alla strategia.

L'obiezione che viene mossa a questa nostra concezione leninista è che i rapporti di classe non sono favorevoli al proletariato nel Medio Oriente. Rispondiamo che ciò è vero relativamente: il proletariato in Egitto ed in Israele, ad esempio, comprende una quota notevole di popolazione attiva e, inoltre, vi sono larghe masse di contadini proletarizzati. In secondo luogo, indipendentemente dagli attuali rapporti di forza, una strategia di classe va perseguita in ogni momento, anche quando (come fu per la ristrettissima minoranza bolscevica di fronte alla Seconda Internazionale "socialsciovinista") non ha possibilità di attuazione immediata. Del resto maoisti, castristi e trotskisti non hanno, in Italia, alcuna possibilità di attuazione immediata delle loro piattaforme piccolo borghesi, eppure le propagandano con il risultato ed il fine, seppur limitatissimo, di rafforzare i vari Nasser. In terzo luogo, la strategia leninista applicata in Medio Oriente non può né deve essere opera del solo proletariato mediorientale, così come quando fu sviluppata per la Rivoluzione d'Ottobre non poteva né doveva essere basata sul solo proletariato russo. La trasformazione della guerra borghese del Medio Oriente in rivoluzione socialista potrebbe e dovrebbe essere poggiata sulla lotta rivoluzionaria del proletariato europeo, e di quello italiano in particolare, che opera in una società dove i rapporti di forza, per l'intensa proletarizzazione, potrebbero essergli favorevoli. Quello che è certo è che la propaganda delle posizioni maoiste, castriste e trotskiste non contribuisce minimamente a far maturare nel proletariato una coscienza leninista che possa modificare in modo positivo le condizioni per sviluppare la rivoluzione socialista in Medio Oriente; anzi, con il suo "interventismo", rappresenta un ulteriore elemento di confusione e di rafforzamento della socialdemocratizzazione in seno al movimento operaio.

La lotta al riformismo deve essere condotta con la chiarezza marxista. Non si può pretendere di combattere la socialdemocrazia quando se ne rispecchiano certi caratteri fondamentali, primo tra i quali la mancanza di principi teorici. Che cosa è se non opportunismo il vizio congenito di strumentalizzare determinate formule teoriche per giustificare determinate posizioni pratiche, che l'altro ieri potevano essere l'esaltazione della "rivoluzione jugoslava" contro Mosca, ieri il panegirico di Ben Bella contro Boumedienne, oggi l'appoggio allo stesso Boumedienne?

"Bandiera Rossa", organo dei trotskisti italiani, pur di giustificare il suo "interventismo" sostanziale, arriva a scrivere che il conflitto del Medio Oriente ha visto, da un lato, uno Stato capitalista, quello d'Israele, "integrato nel sistema imperialistico su scala regionale e mondiale", dall'altro, "un insieme di paesi dalla struttura coloniale e semicoloniale"!

Per "Bandiera Rossa", l'Algeria o l'Egitto sarebbero addirittura "coloniali" o "semicoloniali"!

Per far quadrare il conto dei suoi giri di valzer, "Bandiera Rossa" è persino disposta a fermare il giro delle lancette nel quadrante della storia, della formazione delle nazioni, dello sviluppo del capitalismo nel mondo. Piuttosto che riconoscere la natura borghese degli Stati arabi e lo sviluppo della loro economia, li ricaccia indietro nel tempo. Con tutta probabilità le borghesie arabe, i Boumedienne, i Nasser non accetterebbero la "degradazione" sociale decretata dalla fantasia di "Bandiera Rossa". Tanto più che chi li vuole retrocedere a "coloniali", la "rivoluzione permanente" ha finito con il teorizzarla alla rovescia e, in avanti, di permanente porta solo l'opportunismo.

("Lotta Comunista" n. 17-18, luglio-agosto 1967)

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Lotta internazionalista contro i blocchi militari

Lo Stato capitalistico italiano, come ogni Stato capitalistico, ha una politica estera perché ha degli interessi internazionali, ha una politica di alleanze perché ha interessi comuni con altri Stati, ed ha un sistema di alleanze militari che proteggono questi interessi.

Il problema della NATO rientra nel quadro di questi interessi e come tale va affrontato. Siccome gli interessi del capitalismo italiano sono molteplici e corrispondono, nel loro insieme, agli interessi particolari dei vari settori della classe dominante, ne deriva che non vi è un unico interesse del capitalismo italiano che possa esprimersi inequivocabilmente in una politica estera.

Così come nei vari aspetti della politica interna troviamo riflessa la lotta delle varie frazioni borghesi, così la definizione della politica estera diventa campo di contrasto, di polemica, di mediazione.

La questione della NATO va vista tenendo conto di questa realtà sociale, di questa realtà della classe dominante che spiega pure perché sulla alleanza militare che l'imperialismo italiano ha stretto con gli imperialismi americano ed europei si vadano delineando tre posizioni: la prima di riconferma pura e semplice, la seconda di revisione, la terza di rottura. Gli interessi fondamentali e predominanti delle varie frazioni si trovano riflessi nelle prime due posizioni e su queste due sarà sostanzialmente risolta la continuità dell'alleanza militare. Ma anche la terza posizione, quella dell'uscita dalla NATO, non è in contrasto con alcuni interessi del capitalismo italiano, interessi collegati alle tendenze di sviluppo dell'Italia e ai suoi probabili capovolgimenti di alleanza. Dato, però, che nel prossimo futuro non vi sono possibilità di un ruolo autonomo dell'imperialismo italiano, si può praticamente escludere la soluzione di rottura. Abbiamo formulato questa ipotesi per precisare che la parola d'ordine "Fuori dalla NATO" non è di per sé antimperialista ed anticapitalista, perché può essere fatta propria dall'imperialismo italiano, così come ha fatto l'imperialismo francese.

La politica internazionalista della classe operaia, anche sul terreno delle alleanze militari, deve essere fondata su una chiara ed inequivocabile autonomia di classe che sottragga il proletariato alle manovre dei vari gruppi imperialistici nella loro lotta, nelle loro alleanze, nei loro immancabili capovolgimenti di alleanza.

Durante la seconda guerra mondiale imperialistica gli Stati Uniti, che erano il contendente-predone più forte, stabilirono una rete vastissima di basi militari in quasi tutti i continenti. Costruirono ben 450 basi con 925 aeroporti nei paesi alleati e nemici, spendendo per la sola costruzione qualcosa come 2 miliardi e mezzo di dollari. Non solo nessuna potenza imperialistica era mai giunta a stabilire una rete così vasta e fitta di basi militari fisse e soprattutto mobili (flotte aeronavali), ma è certo che senza il grande conflitto imperialistico neppure gli Stati Uniti vi sarebbero mai riusciti. Le basi militari statunitensi che avvilupparono tutto il mondo non furono altro che i depositi regionali di smercio di un fiume incessante di produzione bellica che, dal 1940 al 1945, straripò dall'immensa macchina capitalistica degli USA: 86.000 carri armati, 297.000 aerei, 315.000 cannoni, 64.500 battelli da sbarco, 6.500 navi da guerra, 5.400 navi da trasporto.

La strategia militare statunitense, come le stesse cifre sulla produzione bellica indicano, era basata da un lato contro l'imperialismo tedesco che aveva cercato di occupare con la violenza il mercato europeo e contro quello giapponese che si era impossessato dell'Asia, ma dall'altro lato era tesa a stabilire il predominio sugli stessi alleati. Non a caso la strategia militare USA era il riflesso della potenza "motoristica": con 11 milioni di uomini in campo, gli Stati Uniti gettarono ben 300.000 aerei!

Il capitalismo europeo, indebolito e stremato, si riparò all'ombra di questa superpotenza. Da questa scelta nacque la NATO. Gli staliniani la contestarono dopo la rottura dell'alleanza USA-URSS e dopo avere per sette anni acclamato come liberatrice la mastodontica macchina bellica americana che con le sue potentissime basi si andava insediando in tutto il mondo.

Ancor più che in Europa gli Stati Uniti si insediarono massicciamente in Asia. Alla data odierna gli USA hanno dislocato nel Pacifico 780 mila uomini, 6.050 aerei, 560 navi. Nel Vietnam hanno 440 mila uomini, 40 mila in Corea, 40 mila in Thailandia. La sola VII flotta conta 175 navi, 75.000 uomini e 700 aerei. La base nucleare di Guam conta 50 bombardieri e 6 sottomarini Polaris. Nel Vietnam del Sud gli USA hanno 89 aeroporti per aerei pesanti e 7 porti per navi di grande stazza. La base di Korat in Thailandia può diventare un centro logistico di 100.000 soldati e 40.000 addetti ai servizi. E così via.

Da un punto di vista generale si può dire che il baricentro della potenza militare statunitense si è andato consolidando, dalla seconda guerra mondiale, in Asia, cioè sul mercato ove gli USA hanno meno concorrenti e dove la pur forte ripresa del capitalismo giapponese non è ancora in grado di rovesciare, o di modificare sensibilmente, il predominio americano.

Il sistematico massacro nel Vietnam è, appunto, la prova di forza di questo predominio e la testimonianza che gli Stati Uniti potranno forse allentare la presa militare in Europa, ma non la allentano per ora in Asia dove i rapporti di forza per gli USA sono, oggi, sostanzialmente, più favorevoli che in Europa, malgrado il Giappone si stia attestando nella graduatoria mondiale come terza potenza. Solo un rovesciamento delle alleanze da parte dell'imperialismo giapponese ed un blocco asiatico o russo-giapponese potrebbe, nei prossimi anni e fintantoché la Cina non giunga a collocarsi tra le prime cinque potenze mondiali (traguardo molto lontano), capovolgere gli attuali rapporti di forza asiatici.

Ma l'attuale "coesistenza diseguale", cioè l'alleanza USA-URSS, copre il fianco europeo agli Stati Uniti. E la "coesistenza diseguale" non esprime altro che il rapporto economico-militare di 2 a 1 a favore degli USA nei confronti dell'imperialismo sovietico, che non riesce neppure più a controllare la zona dell'Europa Orientale ottenuta nella spartizione del bottino nell'alleanza contro l'imperialismo tedesco.

In questi termini oggettivi si presentano oggi i problemi delle alleanze militari e da questi termini risulta chiaramente che solo gli spostamenti delle prime dieci potenze imperialistiche possono rompere gli attuali schieramenti e crearne dei nuovi. Nella storia dell'imperialismo mondiale tutto è possibile, anzi la storia dell'imperialismo nel mondo è proprio la storia dei più repentini mutamenti di alleanza, come ci insegna il corso di ben due guerre mondiali e della loro preparazione.

Lo sviluppo, negli ultimi venti anni, dei gruppi imperialistici in Europa ha posto alcune condizioni per la modifica dell'alleanza con gli Stati Uniti. L'imperialismo tedesco e quello francese, in varie forme, capeggiano questa tendenza, come testimonia la loro posizione sul trattato nucleare russo-americano. Gli anni a venire collauderanno la forma di questa tendenza. Quello che è certo è che tutte le tendenze e gli schieramenti imperialistici sono in movimento. Tutta una serie di fattori economici, che qui non possiamo illustrare, sono entrati pesantemente in campo ed inevitabilmente influiranno nei rapporti tra gli Stati.

Su questo terreno accidentato, su questo sfondo di dimensioni mondiali, su queste prospettive di incalcolabile portata, quale deve essere la posizione internazionalistica del proletariato?

Diciamo subito che senza un partito attrezzato marxisticamente, senza una organizzazione leninista che sappia preparare sufficienti quadri qualificati, la classe operaia è sempre meno in grado di orientarsi in uno sfondo mondiale che vede moltiplicarsi a dismisura, e in forme molto complesse, le contraddizioni dell'imperialismo e le lotte tra i suoi gruppi.

Solo un'assimilazione della poderosa analisi leninista dell'imperialismo può permettere alla classe operaia di conoscere in tutti i suoi aspetti il suo nemico e, quindi, di saperlo veramente colpire dove va colpito. La classe operaia, come dimostra l'esperienza della seconda guerra mondiale, è stata condotta dalla socialdemocrazia e dallo stalinismo a lottare contro un solo aspetto (quello tedesco) dell'imperialismo, con il risultato di essere utilizzata dall'imperialismo in generale.

Nella lotta di classe non esiste solo un nemico, non esiste solo un "imperialismo principale" da abbattere.

La classe operaia deve lottare contro tutti i gruppi imperialistici, contro tutti i potenziali militari, contro tutti i tipi di sfruttamento capitalistici. In questa strategia contro tutti i gruppi imperialistici, la lotta contro i blocchi militari, contro la NATO, contro gli eserciti nazionali è un momento di una lotta generale per la rivoluzione e la dittatura del proletariato, così come lo può essere lo sciopero in un'azienda, in un settore, in una nazione. Solo in questa condizione di chiarezza il proletariato può portare avanti le sue battaglie senza temere di fare il gioco di altre forze ma facendo solo il gioco della sua rivoluzione.

Solo in questo modo la classe operaia può lottare a fondo contro l'imperialismo italiano perché, come giustamente diceva Lenin, si è veramente internazionalisti quando si combatte il proprio imperialismo.

(" Lotta Comunista " n. 19-20, settembre-ottobre 1967)

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Svalutazione della sterlina e socialdemocrazia
al servizio del capitale

L'aspetto monetario è uno degli aspetti fondamentali del capitalismo, ma è soprattutto l'aspetto attraverso il quale noi possiamo vedere riassunti in una espressione quantitativa tutti quei molteplici rapporti che intercorrono tra le varie economie e, in ultima istanza, tra i vari Stati.

Se i rapporti militari costituiscono una espressione chiara e lampante dei rapporti di forza esistenti tra i vari Stati capitalistici, i rapporti monetari ne sono l'espressione non meno apparente, ma forse meno decifrabile agli occhi dei lavoratori.

Eppure, così come i vari gruppi capitalisti si fronteggiano con il loro potenziale economico-militare, così si combattono sul terreno finanziario con le loro armi monetarie, tecnicamente complicate quanto quelle militari.

Le armi monetarie sono indispensabili nella lotta per la conquista e per la ripartizione del mercato mondiale, nella lotta che ogni capitalismo conduce per assumere un peso maggiore e più vantaggioso nelle correnti di traffico del commercio internazionale, nell'importazione e nell'esportazione di prodotti e di capitali. La guerra monetaria è il preludio e la prosecuzione della guerra militare alla quale è intimamente legata, perché ne persegue lo stesso scopo.

Le guerre militari si concludono con lo stabilire trattati che sanciscono i nuovi rapporti di forza determinati dall'esito del conflitto e che sono validi finché questi nuovi rapporti di forza rimangono immutati e finché una delle tante parti in causa non riesce, con mezzi "pacifici" o "bellici", a modificarli.

Così è per la guerra monetaria. Anzi, ad approfondire l'analisi ci si accorgerà che, in generale, il trattato monetario precede quello militare-diplomatico.

Non era ancora finita la seconda grande carneficina imperialistica ed i briganti della democrazia e dello stalinismo non si erano ancora divisi definítivamente il bottino e già, nel 1944, gli Stati capitalistici concludevano gli accordi di Bretton Woods nei quali il dollaro diventava la moneta "forte" mondiale, così come lo era nei campi di battaglia, sulla base di un ancoraggio aureo puramente convenzionale. Da allora il dollaro è rimasto fermo nel suo convenzionale equilibrio aureo, mentre le altre monete hanno subito forti svalutazioni e solo con lo sviluppo delle loro economie hanno potuto, nell'ultimo decennio, risalire la china da cui erano partite nel dopoguerra ed alzare la voce nei confronti della consorella americana. La sterlina ha subito invece la sorte peggiore e ciò per il fatto che dal 1944 la sua posizione internazionale non corrispondeva alla sua reale potenza economica. La sua posizione "privilegiata" di moneta di riserva del dollaro dipendeva da due fattori particolari: dall'esistenza di correnti di scambio internazionali tradizionali le cui operazioni finanziarie si contabilizzavano in lire sterline (circa il 30% del commercio mondiale) e dal ruolo svolto dal capitalismo britannico come secondo centro mondiale del capitale finanziario internazionale.

La guerra monetaria condotta dai gruppi capitalistici europei ed asiatici ha costretto la Gran Bretagna a svalutare del 15% circa la sterlina.

L'imperialismo inglese esce ridimensionato in campo mondiale da questa battaglia tra i gruppi imperialisti che si svolge da vari anni e che conosce una dinamica di estremo interesse per la conferma dell'analisi dell'imperialismo fatta da Lenin. Lo spazio non ci consente di illustrare tutti gli aspetti di una lotta che è in corso, senza esclusione di colpi, tra tutti i gruppi imperialisti.

Possiamo dire soltanto che la svalutazione della sterlina rappresenta una semplice fase di una lotta che avrà sviluppi ben più drammatici. Si stanno oggi manifestando una serie di tendenze nel sistema imperialistico, di portata incalcolabile anche perché saranno foriere di grandi "tempeste sociali".

Noi leninisti, sulla scorta dell'analisi fatta da Lenin, da tempo le andiamo prevedendo ed analizzando e su questa solidissima piattaforma saremo in grado di preparare politicamente la classe operaia ad affrontarle.

Tutti quei gruppi e quelle correnti che, invece, rinnegando sostanzialmente il leninismo sono approdati alle più spurie e opportunistiche posizioni, non avranno alcuna bussola di orientamento e saranno in balia degli avvenimenti.

Già nel presente navigano nella più completa confusione. Hanno appena finito di teorizzare che il mondo è oggi dominato da una sola grande potenza imperialistica e che l'Europa è ridotta ad una "colonia americana" e sono finiti sotto le macerie del terremoto della sterlina.

Si erano immaginati un "imperialismo pianificato", telecomandato dalla "stanza dei bottoni" del Pentagono e della CIA, e hanno dovuto constatare che nemmeno le monete possono essere pianificate.

Hanno appena finito di stampare Lin Piao e Castro che spiegano da che parte soffia il vento e già questi saggi di falso marxismo devono mandarli al macero o farli fuori sottobanco.

La realtà dell'imperialismo dimostra non solo che esso è una lotta incessante tra tutti i gruppi che lo compongono in campo internazionale, ma pure che la sua intima natura poggia sulla massima contraddizione della lotta di classe tra il capitale e il proletariato.

Lo sviluppo dell'imperialismo, in quanto massima manifestazione del sistema capitalistico di sfruttamento, non è una manifestazione che coinvolge solo un paese, per potente che sia.

Lo sviluppo dell'imperialismo significa sviluppo del capitalismo a tutti i livelli, sia in campo internazionale che nazionale.

Solo ideologi borghesi e piccolo borghesi, come i sottosviluppisti, i maoisti, i castristi, potevano falsificare la grandezza scientifica della teoria marxista dello sviluppo capitalistico e concepire questa come un processo estraneo alla lotta di classe. Come vi può essere sviluppo capitalistico senza lotta di classe?

La realtà di ogni giorno ci dimostra che più si sviluppa il capitalismo più virulenta diventa la spinta imperialistica dei paesi maggiormente industrializzati e più si estende la lotta di classe, sia nelle metropoli imperialiste che nei paesi non ancora imperialisti.

Certamente i sovrapprofitti realizzati dalle potenze imperialistiche permettono loro di corrompere i dirigenti e i componenti di una aristocrazia operaia, ma questa è uno strato ristretto di un proletariato che nello sviluppo economico delle stesse metropoli imperialistiche si allarga sempre più e pone contro la borghesia le sue esigenze di classe. Il fatto che l'imperialismo statunitense si estenda su scala mondiale allarga certamente la massa dei suoi profitti, che dovranno essere investiti sia nelle industrie USA che in quelle di altri paesi. Ciò comporta ulteriore industrializzazione e proletarizzazione negli Stati Uniti e negli altri paesi a vario livello di sviluppo. In definitiva, ciò significa un incremento della lotta di classe che nessun processo di socialdemocratizzazione può arrestare.

Toccherà invece alla socialdemocrazia il compito di difendere il capitalismo contro la lotta della classe operaia. È significativo ciò che accade in Inghilterra, cioè in uno dei maggiori paesi impermalisti, dove la socialdemocrazia è stata costretta a presentarsi come un governo prettamente borghese che difende il sistema capitalistico e cerca di fare pagare alla classe operaia la crisi dell'economia inglese. Non sono bastati più di cento anni di pratica tradeunionista ad evitare questo scontro, anche se una così lunga tradizione riformistica costituisce un forte freno nella acquisizione di una coscienza rivoluzionaria.

Non è un caso che le lotte inglesi si congiungano a quelle americane, proprio a sottolineare il loro comune carattere proletario. Segno che, in questo momento, la lotta di classe è più forte nei maggiori centri dell'imperialismo, indipendentemente dal fatto che negli Stati Uniti all'avanguardia si siano trovati i proletari di colore. In Inghilterra, dove il problema del proletariato di colore è minore, la tendenza della lotta di classe si è manifestata con ancor maggiore chiarezza ed ha costretto la socialdemocrazia a sconfessare gli scioperi "selvaggi" come attentati alla "economia nazionale" e a porsi l'obiettivo di "regolamentarli", sull'esempio del corporativismo fascista.

Anche in Italia si stanno preparando le condizioni per un corso di lotta di classe che vedrà smascherato il ruolo della socialdemocrazia italiana (PSU - PCI - PSIUP). Occorre preparare il partito leninista, affinché abbia capacità e forza per appoggiare gli scioperi spontanei ed oggettivamente antisocialdemocratici. In queste lotte il partito leninista troverà la linfa che lo alimenterà, ma perché ciò avvenga è necessario che il terreno sia sbarazzato da tutte quelle ideologie piccolo borghesi che negano che il proletariato è l'unica classe conseguentemente rivoluzionaria e conseguentemente internazionalista.

(" Lotta Comunista " n. 21-22, novembre-dicembre 1967)

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Le basi proletarie ed internazionaliste
della strategia rivoluzionaria

L'elaborazione della strategia rivoluzionaria della classe operaia non è il frutto improvvisato di una singola esperienza e nemmeno il risultato di un momento contingente.

L'elaborazione della strategia rivoluzionaria della classe operaia poggia, invece, su alcuni fondamenti generali e immutabili ricavati da tutta l'esperienza storica delle lotte tra tutte le classi e, in particolare, da tutta l'esperienza storica delle lotte tra la classe capitalistica e la classe operaia.

Analizzando tutta l'esperienza storica delle lotte di classe (tutta l'esperienza e non solo singole fasi), Marx giunse alla grande scoperta scientifica della nostra epoca: la sola classe conseguentemente rivoluzionaria è la classe operaia perché liberando se stessa libera tutta l'umanità. Questa scoperta scientifica è strettamente collegata ad un'altra grande scoperta operata nell'analisi del processo di produzione capitalistico: il plusvalore. Senza la scoperta del processo di formazione del plusvalore, Marx non avrebbe poi potuto stabilire che l'unica classe formatrice di plusvalore è l'unica classe conseguentemente rivoluzionaria. Marx non scoprì la lotta di classe: lui stesso affermò che altri prima di lui avevano visto questo fenomeno sociale. Marx scoprì, invece, le leggi economiche che presiedono alla lotta di classe, scoprì il plusvalore, scoprì le leggi di movimento della società capitalistica. Dato che l'unica classe che produceva plusvalore era la classe operaia ne derivava che tutto il funzionamento della società, dalla sovrastruttura a tutti i suoi strati parassitari, era determinato dai processo di suddivisione del plusvalore. Ne derivava infine che la classe operaia per liberare se stessa doveva essere autonoma politicamente, cioè organizzarsi in partito rivoluzionario, abbattere lo Stato ed instaurare la sua dittatura contro tutte le altre classi.

Tutti i pilastri della strategia rivoluzionaria del proletariato sono già stati posti da queste grandi scoperte di Marx. Lenin non ha fatto altro che verificare, applicandola, la validità della strategia marxista, battendosi prima contro ogni sorta di populismo contadino e piccolo borghese per affermare il ruolo del proletariato come unica classe conseguentemente rivoluzionaria, sconfiggendo poi ogni sorta di economicismo e di spontaneismo per imporre il ruolo insopprimibile dell'avanguardia di classe organizzata in partito, lottando a fondo, infine, contro ogni sorta di socialpatriottismo, di "socialismo nazionale", di tradimento della causa rivoluzionaria internazionalistica.

Di fronte ad un Plechanov che vedeva nell'imperialismo tedesco il "nemico principale" da combatte e perciò finiva con l'appoggiare l'imperialismo russo, di fronte ad un Kautsky che, a sua volta, vedeva nella "reazione zarista" il "nemico principale" e perciò finiva con l'appoggiare l'imperialismo tedesco, di fronte ai socialisti francesi che si mobilitavano contro il "pericolo principale" del "kaiser tedesco" appoggiando la "democratica" borghesia francese, Lenin non fece altro che restaurare i principi internazionalistici della strategia rivoluzionaria del proletariato, il quale ha un solo nemico, che è il sistema capitalistico mondiale nella sua fase imperialistica.

Solo dopo aver demolito implacabilmente i vari Plechanov e Kautsky, il piccolo gruppo rivoluzionario raccolto intorno a Lenin, mentre le masse seguivano i socialisti nazionali, poté forgiare tutti gli strumenti teorici e politici per portare avanti la strategia ed arrivare alla Rivoluzione d'Ottobre, cioè al tentativo di iniziare in suolo russo la rivoluzione del proletariato internazionale. Purtroppo la lotta intrapresa dai marxisti conseguenti, dai leninisti, fu troppo breve ed il tentativo fu schiacciato dalla controrivoluzione staliniana, dalla socialdemocrazia, dal fascismo, cioè da tre delle tante forme in cui si è manifestato il "socialismo nazionale" o il prevalere degli interessi nazionali che non possono essere altro che capitalistici (grandi, medi e piccolo-capitalistici).

Questi interessi sono rappresentati da classi che hanno raggiunto ormai la consapevolezza storica che l'unica forza sociale che li può abbattere è il proletariato internazionale e, quindi, si difendono, oltre che con la forza, con l'ideologia. Ecco allora il fiorire, nella fase di imputridimento del capitalismo, di ideologie socialnazionali che cercano di incatenare il proletariato di ogni paese agli "interessi della nazione" (che altro non sono che gli interessi di tutti gli strati borghesi) e che hanno l'obiettivo fondamentale di impedire al proletariato di trovare la sua identità internazionale e quindi l'unica sua unità e l'unica sua forza. L'efficacia di queste ideologie "socialnazionali" è dimostrata ormai da cinquant'anni di storia. I vari gruppi imperialistici hanno potuto impunemente utilizzare il proletariato come carne da cannone nelle loro lotte per la ripartizione del mercato mondiale, senza che gli operai riuscissero ad unirsi e quindi ad acquistare forza invincibile contro le classi dominanti contendenti. La seconda grande carneficina mondiale imperialistica è stata possibile, appunto, perché il proletariato fu diviso in compartimenti stagni dai vari "socialismi nazionali" di Hitler e Stalin. Se solo il proletariato russo e tedesco fossero stati uniti internazionalisticamente, nessuna guerra imperialistica sarebbe stata possibile in Europa.

Oltre che nei paesi imperialistici le ideologie "socialnazionali" sono fiorite nei nuovi paesi capitalistici. Anzi, esse sono l'ideologia dei nuovi capitalismi i quali, appena rafforzato lo Stato, instaurano la loro dittatura sulla classe operaia per impedire che questa possa collegarsi a tutto il proletariato internazionale. Non c'è paese del cosiddetto "Terzo Mondo" che non abbia visto questo processo: dall'India alla Cina, dall'Algeria all'Indonesia, dall'Egitto a Cuba. Non si può parlare di strategia rivoluzionaria internazionale se non si parte da questa esperienza concreta, che non fa altro che confermare la tesi marxista del proletariato come unica classe conseguentemente rivoluzionaria.

Certamente, oggi come ieri, vi sono delle lotte tra giovani capitalismi e gruppi imperialistici, così come vi sono lotte tra i vari gruppi imperialistici. Il proletariato non solo non può restare indifferente a queste lotte ma deve approfittarne per rafforzare la sua posizione. Di fronte ad una guerra come quella del Vietnam, il proletariato deve approfittare di questa contraddizione per portare avanti la sua iniziativa, per indebolire il sistema capitalistico mondiale in ogni suo pilastro e per appoggiare già da oggi il giovane e ristretto proletariato vietnamita, distaccamento avanzato del proletariato internazionale in un paese prevalentemente agricolo, prima che esso subisca la sorte dei suoi confratelli indiano, cinese, indonesiano o algerino.

Lenin ha fissato chiaramente, e una volta per tutte, i compiti internazionalistici della lotta del proletariato internazionale. Questi sono i compiti dell'unica e possibile strategia rivoluzionaria della nostra epoca; la strategia della classe operaia, cioè di una classe che, a differenza di tutte le altre, è effettivamente rivoluzionaria perché ha una identità di interessi e di condizioni, sia che si trovi ad essere sfruttata in Russia come in Europa, in America come in Asia o in Africa.

In ogni paese esiste, ormai, un proletariato, più o meno esteso, che si caratterizza nello specifico rapporto di produzione capitalistico. In ogni paese il proletariato è costretto a vendere la sua forza lavoro ad aziende private o statali che lo sfruttano per ricavarne un plusvalore, da cui attingere i fondi di accumulazione e i fondi di consumo per gli strati improduttivi o parassitari.

Questa condizione di classe sfruttata accomuna i proletari di tutto il mondo. Ad eccezione di alcune ristrettissime aristocrazie operaie, i proletari di ogni paese non hanno alcun interesse al mantenimento del sistema capitalistico. Sono gli ideologi della borghesia e della piccola borghesia ad affermare il contrario perché, appunto, il loro interesse consiste nell'impedire che il proletariato giunga alla consapevolezza politica della sua condizione oggettiva. E la propaganda borghese e piccolo borghese è tanto più vasta nella attuale fase imperialista, quanto più il proletariato si è andato estendendo in ogni continente. Mai come oggi la lotta internazionalistica e leninista deve essere concentrata contro questa campagna oggettivamente antioperaia.

Non ci sono mezzi termini: o si è marxisti e leninisti conseguenti nell'affermare il ruolo fondamentale e rivoluzionario del proletariato o si è praticamente contro la classe operaia. Da questa chiara demarcazione passa il futuro della strategia internazionalista della rivoluzione mondiale anticapitalista e, quindi, antimperialista.

(" Lotta Comunista " n. 23-24, gennaio-febbraio 1968)

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La dimensione internazionale della crisi francese

"La repubblica borghese trionfò. Essa aveva con sé l'aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i Piccoli borghesi, l'esercito, la canaglia organizzata in guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale... . Tutte le classi e tutti i partiti si erano uniti durante le giornate di giugno nel partito dell'ordine per fronteggiare la classe proletaria, considerata come il partito dell'anarchia, del socialismo, del comunismo".

Così Marx analizza, nel "Diciotto brumaio", le giornate della prima grande insurrezione proletaria nella Parigi del 1848. Sono passati esattamente 120 anni e il quadro sociale dei rapporti di classe è rimasto immutato. Da un lato della barricata il "partito dell'ordine",della borghesia che chiama a raccolta la piccola borghesia, dall'altro lato il proletariato ingannato, come sempre, dagli opportunisti, cioè dagli agenti della borghesia nel movimento operaio che hanno come supremo scopo quello di sabotare ogni lotta operaia conseguenze. E in realtà il quadro sociale non poteva cambiare perché il sistema capitalistico di produzione su cui si basa è sempre lo stesso e le reazioni sociali fondamentali che provoca non possono che essere le stesse. È impressionante notare come al primo grande movimento di classe che si sviluppa agli albori della dominazione capitalistica francese corrisponda una reazione controrivoluzionaria che ritroviamo in tutte le sue componenti quando, ad una dominazione divenuta ormai imputridita e imperialistica, si contrappone un altro grande movimento di classe che del primo decuplica lo slancio ma, purtroppo, anche i limiti.

Ancora una volta il marxismo si presenta in tutta la sua immensa attualità storica. Le ideologie borghesi e piccolo borghesi, le ideologie del capitalismo di Stato e del revisionismo, le ideologie della mistificazione e dell'inganno sistematico possono buttarlo fuori dai libri, deformarlo evirarlo, falsificarlo. Non importa: esso si ripresenta intatto nella realtà. E sulle piccole vendette dei suoi nemici il "vecchio" Marx può celebrare il suo grande trionfo, la sua rivincita storica.

I nemici dovranno recitare ancora una volta la parte del "copione" del 1848 e i dirigenti controrivoluzionari del proletariato dovranno, come allora, gettare la maschera e salire sul palcoscenico a recitare la immonda farsa del "partito dell'ordine".

Il 1848 aveva tracciato nella "nazione" il solco incolmabile di classe e il solco si era colmato di sangue. Da una parte la borghesia con la "nazione" e la "democrazia", dall'altra il proletariato con il suo internazionalismo e la sua dittatura. La storia aveva ormai separato nettamente le due classi sorte nell'epoca moderna: o dittatura borghese o dittatura proletaria.

Altre vie non erano più possibili e coloro che, in un modo o nell'altro, le predicavano, non facevano altro che disarmare la classe operaia di fronte alla dittatura borghese.

Questo aveva scoperto Marx nel 1848 analizzando la lotta delle classi, le caratteristiche della piccola borghesia, i connotati dei gruppi "democratici" che avevano diretto e tradito il proletariato, il sorgere del bonapartismo. Aveva, cioè, "scoperto" la controrivoluzione in tutte le sue forme, ma soprattutto in quella più pericolosa che si insedia in seno al movimento operaio.

Tutta la storia successiva, sino ai nostri giorni, non ha fatto che confermare questa "scoperta", che sta ai rapporti politici tra le classi come quella del plusvalore sta ai rapporti di produzione.

La sconfitta della ideologia del " capitalismo organizzato "
Per questa ragione possiamo dire che gli insegnamenti della crisi francese non hanno alcuna portata da un punto di vista teorico, da un punto di vista della teoria marxista. Non pongono nessun problema per la teoria marxista della lotta di classe, dello Stato, della controrivoluzione, del partito. Da un punto di vista teorico sono una semplice conferma delle analisi e delle soluzioni stabilite dal marxismo.

La loro portata è, invece, immensa da un punto di vista pratico data la dimensione stessa della crisi francese e i movimenti delle classi che ne sono state le protagoniste. Tale portata pratica della crisi francese rappresenta, di per sé stessa, una grande sconfitta di tutta una serie di ideologie sorte nella fase di relativa stabilizzazione del sistema imperialistico, determinata, negli ultimi due decenni, dalla temporanea eliminazione dei gruppi tedeschi, giapponesi e italiani dalla competizione mondiale, dal ridimensionamento dei gruppi inglesi, francesi, olandesi e belgi e dal predominio dei gruppi americani e sovietici.

La sconfitta delle ideologie prodotte da un particolare tipo di rapporti interimperialistici, che come vedremo in seguito sta entrando in crisi, non significa di certo la loro scomparsa; anzi esse possono sopravvivere ed anche espandersi.

Significa semplicemente che esse hanno perso ogni riferimento a quei parziali aspetti della realtà sociale che, in quanto ideologie, elevavano a rappresentazione globale e proiettavano in una mistificata teoria generale.

Rimaste orfane anche della loro degenerata madre empirica, le ideologie della nostra fase imperialistica sono ora costrette a rifugiarsi nell'eterno bordello della "fantasia".

Indipendentemente dalle loro innumerevoli varianti, le ideologie in questione possono essere ricondotte ad un nucleo abbastanza ristretto di matrici.

Cerchiamo, quindi, di raggrupparle secondo queste matrici.

Un primo gruppo può essere identificato nel ventaglio di varianti che va dalla tecnocrazia allo statalismo, al riformismo. La sua matrice teorica è rappresentata dalla tesi che il capitalismo può essere organizzato e che, di conseguenza, il capitalismo analizzato dal "Capitale" può cambiare natura e diventare il "capitalismo organizzato". Ne deriva, quindi, che anche i rapporti tra le classi possono essere "organizzati". Le varianti ideologiche si formano sulle forme del progettato "capitalismo organizzato". La mistificazione, a questo punto, raggiunge gradi di perfezione perché si dispiega in una infinità di sfumature. Si va dai gruppi che dicono di voler riformare il capitalismo ai gruppi che dicono di voler instaurare "democraticamente" il socialismo, ai gruppi che affermano che questo tipo di "socialismo" deve essere instaurato con la violenza. In realtà tutte queste ideologie non sono altro che la copertura di una profonda tendenza di sviluppo del capitalismo in capitalismo di Stato, tendenza che caratterizza non la possibilità di organizzare il capitalismo, ma la necessità di accentrare proprietà e controllo dei rapporti di produzione in un apparato statale cresciuto enormemente ed ultima garanzia di sopravvivenza di un sistema di sfruttamento necessario alla accumulazione capitalistica o al consumo improduttivo. Tale tendenza è in Francia molto avanzata. Ma è bastato uno sciopero generale per mettere in crisi tutti i settori privati e statali del capitalismo e per rendere puramente "fantastiche" tutte le teorie sul loro funzionamento. Gli ideologi del "capitalismo" e del "socialismo" hanno dovuto lasciare da parte le loro teorie e ritrovarsi brutalmente spalla a spalla per difendere il capitalismo puro e semplice che dimostrava tutta la sua disorganizzazione.

La sconfitta dell'ideologia dell'accerchiamento delle città
Il secondo gruppo di ideologie può essere ricondotto alla matrice del primo gruppo ("capitalismo organizzato": espressione ideologica della tendenza reale al capitalismo di Stato) da un lato e, dall'altro, deve essere collegato ad una seconda matrice differenziale ("edificazione del socialismo": espressione ideologica della tendenza reale dello sviluppo del capitalismo di Stato nelle zone arretrate). Mentre le ideologie del primo gruppo si congiungono allo sviluppo del capitalismo di Stato nei paesi imperialistici, quelle del secondo gruppo si congiungono alla stessa tendenza di sviluppo, operante, però, in zone arretrate: cioè in zone che hanno particolari tipi di subordinazione con i paesi imperialistici. Ecco perché la stessa teoria ideologica del "capitalismo organizzato" corrisponde a due funzioni: per le ideologie imperialistiche significa che la classe operaia può essere organizzata e controllata nello sviluppo del capitalismo di Stato; per le ideologie del capitalismo di Stato delle zone arretrate significa che la classe operaia è "integrata" nel sistema imperialistico delle zone avanzate. Il punto di congiunzione delle due visioni risulta essere il punto più alto ed unificante della pratica controrivoluzionaria, il tentativo di negare (prima nella prassi e poi nella ideologia) il ruolo della classe operaia, teorizzato e sostenuto nella prassi del marxismo, come ruolo dell'unica classe conseguentemente rivoluzionaria.

Le ideologie prodotte nelle zone arretrate seguono oggettivamente il destino delle loro economie: si integrano nel mercato mondiale imperialistico. Così come lo sviluppo economico delle zone arretrate, definito "edificazione del socialismo", non è altro che una componente dell'economia mondiale dominata dall'imperialismo, l'ideologia che sorge da questo tipo di sviluppo appartiene di fatto al sistema mondiale delle ideologie dell'imperialismo. Il castrismo, ad esempio, è l'equivalente ideologico della produzione "socialista" dello zucchero cubano inserita nei rapporti di scambio imperialistici.

Inseriti in questi rapporti di scambio, i paesi "socialisti" arretrati sono costretti a mistificare ideologicamente il sistema mondiale imperialistico e a propagandare ideologie in cui l'imperialismo è ridotto ad alcuni suoi particolari aspetti e non è visto nella sua globalità. Siccome, nell'attuale assetto mondiale dei rapporti di scambio imperialistici, paesi come la Cina e Cuba sono costretti a scontrarsi con alcuni paesi imperialistici (per la Cina gli Stati Uniti e l'URSS; per Cuba solo gli Stati Uniti) e non con tutto il sistema, le ideologie maoiste e castriste esprimono un antimperialismo parziale.

La crisi francese ha condotto queste ideologie alla più completa disfatta. Basti richiamare il loro fondamentale presupposto, espresso nella teoria dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne.

Un terzo gruppo di ideologie della "integrazione operaia" (correnti alla Marcuse e alla Sweezy) può essere definito il sottoprodotto dei primi due gruppi. In esso troviamo più o meno fantasticamente combinate, sullo sfondo della più decadente cultura borghese, le teorie del "capitalismo organizzato" e dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne. Sweezy è arrivato al punto di definire la classe operaia dei paesi imperialistici una enorme "aristocrazia operaia", che non produce più plusvalore ma che partecipa al "surplus" prodotto dal resto del mondo. Prodotte dall'imperialismo, tutte queste ideologie sono ormai ridotte ad essere la versione fantastica della sua apologia.

Organicamente espressioni della sovrastruttura ideologica del mondo imperialista e delle sue contraddizioni sono incapaci di individuare i nodi fondamentali della stessa crisi imperialistica.

La crisi francese come inizio della crisi imperialista
La crisi francese è uno dei primi importanti sintomi di una più vasta crisi mondiale del sistema imperialistico. Essa rappresenta la prima importante prova che la crisi mondiale si sta spostando dalle zone periferiche alle zone centrali dell'imperialismo, alle sue metropoli. La crisi delle zone periferiche rappresenta un episodio della lotta che i vari gruppi imperialistici hanno ingaggiato per una nuova ripartizione del mercato mondiale. Per questo suo carattere, quindi, non è in grado di provocare la crisi nelle metropoli. È in grado però, di determinare una serie di squilibri tra le potenze imperialistiche e gli stessi paesi capitalistici che non hanno ancora la forza per essere imperialisti.

In pratica ciò vuol dire che nessun Vietnam potrà, di per sé, provocare una crisi sociale negli Stati Uniti, nel Giappone, nell'URSS e nei paesi imperialistici europei. E quello che non può oggettivamente provocare un Vietnam non lo possono fare neppure altri cinque Vietnam. Non si tratta di un rapporto quantitativo. Si tratta di un rapporto sociale, di un rapporto di classi. Le lotte tipo Vietnam hanno un contenuto sociale non proletario ma borghese, hanno obiettivi non socialisti ma democratici, hanno per nemico non l'imperialismo ma un singolo paese imperialista. Nella guerra del Vietnam gli Stati Uniti cercano di mantenere, con l'esercizio della forza militare, la loro egemonia imperialistica in Asia contro paesi capitalistici più deboli e arretrati, come la Cina, l'India, l'Indonesia, contro paesi imperialistici in decadenza che hanno dovuto abbandonare o limitare la loro influenza nel continente, come la Gran Bretagna, la Francia, l'Olanda, e contro paesi imperialistici in ascesa che vogliono e hanno necessità di aumentare la loro influenza sul mercato asiatico, come l'URSS, il Giappone, la Germania e l'Italia.

Limitare la guerra del Vietnam ad uno scontro tra il movimento di unificazione vietnamita e l'imperialismo americano, come fanno alcuni gruppi e correnti, significa ridurre questo episodio di rilevanti proporzioni ad una caricatura incomprensibile. In sostanza significa ripetere le argomentazioni della propaganda di tutti i gruppi imperialistici i quali hanno tutto l'interesse a presentare il conflitto vietnamita come un episodio locale e a non scoprire la sua intima essenza, radicata nella lotta per la ripartizione imperialistica del mercato asiatico.

Gli Stati Uniti non possono confessare la loro egemonia conquistata nel 1945 con la sconfitta del concorrente giapponese. Gli altri paesi imperialistici non possono certamente dire che uno scacco degli Stati Uniti nel Vietnam rappresenta per essi l'indebolimento della potenza americana in Asia, indebolimento che oggettivamente lascia maggiore possibilità di inserimento ai gruppi concorrenti.

Inquadrato in questo contesto internazionale il conflitto vietnamita, appunto perché rientra in una dinamica di lotte interimperialistiche (una dinamica molto complessa e non già così semplice come appare a chi vede uno scontro, inesistente, nella penisola indocinese tra due imperialismi), provoca uno squilibrio tra i gruppi imperialistici, da un lato, e testimonia, dall'altro, che la crisi dell'assetto imperialistico del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale sta entrando in una fase acuta ed è già iniziata la lotta per la determinazione di un nuovo assetto, di nuove sfere di influenza, di nuove alleanze interimperialistiche.

La crisi dell'assetto imperialistico mondiale
La crisi dell'assetto imperialistico del mondo, basato sull'egemonia del gruppo americano e sulla compartecipazione di quello sovietico (creazione di due blocchi, oggi in disgregazione), è determinata da fattori strutturali. Lo sviluppo della produzione industriale di alcuni paesi, l'intensificazione della concentrazione e della centralizzazione del capitale, l'estensione dei gruppi monopolistici e capitalistico-statali, l'espansione del commercio mondiale e dell'interdipendenza economica, la capacità di eccedenza di capitali destinati all'esportazione, il crescente processo di internazionalizzazione del capitale, sono tutti fattori strutturali che investono tutti i paesi capitalistici e li spingono ad una feroce concorrenza in ogni settore del mercato mondiale.

Ogni paese capitalista è costretto ad ingaggiare questa lotta poiché non può rimanere su posizioni stazionarie: o avanza o indietreggia. Una diversa soluzione non gli è permessa. Una spirale incessante di sviluppo ineguale è messa in moto. Prescindendo dai paesi capitalistici più arretrati, che si vedono sempre più distanziati, anche tra le prime dieci potenze industriali del mondo nessuna posizione predominante anche in singoli rami è mai acquisita, ma deve sempre essere conquistata e difesa.

Solo chi ha una concezione metafisica e non marxista dell'imperialismo mondiale è incapace di vedere questo fenomeno sociale che, per la sua natura contraddittoria, è estremamente dinamico. In termini statistici si può verificare come la graduatoria di una serie di indici produttivi per le prime dieci potenze industriali non rimanga immutata non solo per un quinquennio, ma addirittura per un anno.

Una situazione di questo tipo ha inevitabili conseguenze sul piano dei rapporti di classe in ogni paese imperialistico. In questo senso, sul piano dei rapporti di classe si deve intendere lo spostamento della crisi mondiale dell'imperialismo dalle zone periferiche, terreno di scontro della concorrenza tra gruppi imperialistici, alle zone metropolitane, centro da cui partono le tendenze concorrenziali.

L'imperialismo francese in decadenza
La Francia rappresenta un esempio clamoroso di queste tendenze imperialistiche. Se noi esaminiamo come queste tendenze operano in Francia possiamo comprendere perché questo paese sia stato colpito per primo dalla crisi che sta investendo le metropoli. Vi sono alcuni caratteri storici del capitalismo francese che l'ultimo ventennio non solo non ha eliminato ma ha addirittura esasperato. Questi caratteri possono riassumersi nella sua prevalente forma finanziaria, in quella che già Lenin individuava come imperialismo usuraio. Il capitalismo francese ha tutti i caratteri del capitalismo finanziario corrispondenti alle altre potenze industriali, ma a differenza di queste ha accentuato lo scarto tra l'investimento industriale e l'esportazione di capitale finanziario.

Il risultato è che la potenza finanziaria francese è sproporzionata alla sua potenza industriale; inoltre, il suo apparato produttivo e la capacità competitiva dei suoi prodotti industriali sul mercato internazionale si trovano in condizioni d'inferiorità con quelli dei suoi concorrenti americani, tedeschi, giapponesi e italiani.

La crisi di maggio e la linea protezionistica che ne è stata la conseguenza hanno messo in luce questa inferiorità francese. Da una analisi di Pierre Locardel di "Le Figaro" prendiamo la parte riguardante la "formazione lorda del capitale fisso" o investimento globale. Sulla base 100 nel 1960 si arriva all'indice 185 per la Francia, 150 per la Germania, 160 per la Gran Bretagna, 135 per gli Stati Uniti. Ma in questo indice, nota il Locardel, non sono inclusi gli investimenti in ricerca, reti commerciali all'estero, brevetti (investimenti molto deboli in Francia), mentre sono inclusi gli investimenti per l'agricoltura e gli alloggi che sono stati invece molto elevati nell'economia francese.

Se si prendono solo gli investimenti in equipaggiamento industriali di dieci anni, dal 1957 al 1966, si avranno questi valori: 476 miliardi di franchi nella Germania Occidentale, 264 nel Regno Unito, 275 in Francia, 177 in Italia. Lo scarto con il Giappone è ancora più alto. L'incidenza media degli investimenti globali sul prodotto nazionale tra il 1960 e il 1965 è stata del 38% in Giappone, del 27% in Germania, del 21% in Francia, del 15% in Gran Bretagna.

Ma la maggior parte degli investimenti industriali francesi è stata destinata al rinnovamento del vecchio macchinario. Il parco macchine utensili francesi conta circa 500 mila unità: quello tedesco 1.500.000, quello inglese 1.400.000. Esso conta il 28% delle macchine con più di venti anni contro il 18% in Germania e il 20% in Gran Bretagna. Il rapporto italiano è più favorevole e ciò spiega perché l'Italia, pur essendo più arretrata nel totale degli investimenti complessivi e negli investimenti industriali, sia meno distanziata dalla Francia di quanto sembri.

La funzione imperialistica della ideologia gollista
L'inferiorità francese risalta ancora di più se confrontata con la Germania. Mentre questa ha il 52% dell'attività economica concentrata nell'industria, la Francia ne ha solo il 42% e si mantiene al livello italiano. Il Ministro gollista Chalandon sostiene che gli investimenti francesi sono la metà di quelli dell'industria tedesca. Una buona parte degli investimenti vanno quindi, come abbiamo visto, all'agricoltura, con il risultato di una forte produzione che deve essere sostenuta con prezzi di intervento pagati dagli altri soci del MEC. Un altro aspetto dell'inferiorità francese è costituito dalla sua decadenza imperialistica iniziatasi con la prima guerra mondiale e conclusasi con la seconda. Alla fine degli anni '60 la Francia aveva perso tutte le colonie in Asia, nel Medio Oriente, nel Nord Africa e nell'Africa continentale. Uno dopo l'altro questi territori cadevano sotto l'influenza di altri imperialismi, quello americano in testa. Nel tentativo di contrastare questo suo ridimensionamento l'imperialismo francese compie un intenso sforzo economico e militare, pagato interamente dalla classe operaia. Il gollismo è lo strumento politico di questa lotta dell'imperialismo francese che, per poter sviluppare la sua strategia internazionale, ha bisogno di esercitare una dittatura di tipo bonapartista nel suo fronte interno.

Il gollismo non è quindi un rigurgito nazionalistico, ma la forma politica dell'imperialismo francese in lotta contro l'assetto in blocchi scaturito dall'alleanza americano-sovietica a Yalta. E più questo imperialismo in decadenza è costretto a lottare, più suscita e diffonde la sua putrefatta ideologia nazionalista, attorno alla quale mobilita una delle più inefficienti borghesie, una delle più parassitarie piccole borghesie, una delle più corrotte aristocrazie operaie, uno dei più squallidi opportunismi. Da De Gaulle al PCF un unico filo ideologico tiene assieme i brandelli di un imperialismo sconfitto. La parola "nazione" e "tricolore" in bocca a questi signori più che disgusto provoca ilarità! Da quando il capitalismo tedesco sorse a contrastare l'egemonia francese in Europa, la "grandeur" della Francia è sempre stata risollevata dalla polvere dagli anglosassoni.

Dal 1870 le tre guerre franco-tedesche per il dominio europeo hanno visto sistematicamente la sconfitta dei generali francesi, salvati sempre in extremis dall'intervento dell'Inghilterra e degli Stati Uniti. Nel 1918 la Francia poteva sedersi ancora al tavolo di Versailles: nel 1945 a Yalta non l'hanno neppure chiamata.

Forse è per questo che l'unica ideologia che la borghesia francese può agitare per raccogliere attorno a sé tutti gli strati piccolo borghesi, tutti i parassiti e gli opportunisti di Francia è ancora l'ideologia nazionalistica, l'ideologia burletta che non intacca minimamente le "superpotenze" americana e sovietica contro le quali dice di essere rivolta e le quali, invece, sono arrivate puntualmente in soccorso del gollismo, e con la propaganda e con i quattrini, sia per mantenere lo status quo nell'Europa Occidentale sia perché hanno temuto che si avviasse in Francia un processo di lotta di classe che le avrebbe inevitabilmente investite.

Ridotta alla sua essenza l'ideologia gollista e nazionalista è, dunque, l'ideologia controrivoluzionaria dell'union sacrée e della collaborazione di classe, un'ideologia che pesa come un maledizione sul proletariato francese e che da cinquant'anni gli impedisce di scindersi nettamente dalla "nazione" borghese e dalla melma piccolo borghese che la sostanzia.

È proprio in nome della "nazione" che la borghesia francese tenta di sviluppare una strategia imperialistica internazionale. A questo punto il gollismo, più che come ideologia burletta, deve essere visto come seria operazione politica della lotta dei gruppi imperialistici. In fondo ha poca importanza sapere se i protagonisti sociali credono effettivamente all'ideologia nazionalistica del gollismo e dell'opportunismo francese. In effetti questa è per loro la funzione tipica di una ideologia, cioè la funzione di una "falsa coscienza", resa ancora più necessaria in un paese dove lo sfruttamento di un impero e il ruolo di "banchiere europeo" avevano dilatato al massimo strati borghesi "tagliatori di cedole", di piccolo borghesi parassitari, di lacchè più o meno decorati ma organicamente abituati a vivere improduttivamente.

Questa massa ha trovato nel gollismo la propria bandiera, ma soprattutto la protezione. La potrebbe trovare domani in un Fronte Popolare, sempre a condizione che la classe operaia, in nome della "nazione", continui a mantenerla.

La strategia della terza potenza mondiale
Due esigenze fondamentali di conservazione del sistema capitalistico in Francia si proiettano e si unificano nella strategia imperialistica gollista che, come abbiamo visto, si maschera con l'unica ideologia capace di collegare le masse piccolo borghesi (e, tramite il PCF, alcuni strati operai) all'egemonia del grande capitale: la prima esigenza è quella, appunto, di un grande capitale, monopolizzato e concentrato, che opera ed ha necessità di operare a livello internazionale e che è già altamente intrecciato con il capitale monopolistico europeo, in particolare tedesco; la seconda esigenza è quella di trovare a livello internazionale le fonti di reddito, ristrette ormai dalla perdita coloniale, a tutti quegli strati parassitari che costituiscono la base sociale di massa del regime.

La strategia gollista ha l'obiettivo di costituire la terza potenza mondiale imperialistica, che riesca a controbilanciare quella americana e quella sovietica e che si ponga in alternativa al Giappone, che proprio in questo periodo si sta affermando come la vera terza potenza.

Siccome la Francia non potrà mai da sola aspirare a questo obiettivo, la strategia gollista si presenta concretamente come la strategia del blocco Francia-Germania, cioè la strategia dell'affermazione mondiale della Germania e della sua reale capacità di competizione sul mercato europeo occidentale ma soprattutto sul mercato europeo orientale, su quello asiatico, africano, mediorientale e sudamericano. Solo in questa prospettiva il grande capitale francese, parallelamente al processo crescente d'integrazione con il grande capitale tedesco che partorirà la progettata "società europea" per azioni, può sperare di giocare un ruolo e di pesare nella lotta scatenata per una nuova ripartizione del mercato mondiale.

Altrimenti i maggiori vantaggi saranno conseguiti dal Giappone il quale, in conseguenza dei mutati rapporti di forza industriali che vedono ridotta l'egemonia statunitense di fronte all'aumentata capacità produttiva degli altri paesi imperialistici, sta già inserendosi attivamente nel mercato asiatico mentre la Francia vi è pochissimo rappresentata. In questa lotta anche se la Germania, per la sua stessa capacità produttiva, ha più punti all'attivo, non può da sola sperare di diventare la terza potenza, anche perché Stati Uniti e Russia la tengono divisa, le dividono il mercato e l'apparato produttivo. Solo nell'alleanza con la Francia, e nell'integrazione franco-tedesca dei monopoli, la Germania può tentare di superare questi limiti oggettivi, di unificare mercato e apparato produttivo, di egemonizzare, perciò, il suo tradizionale mercato dell'Europa orientale e, comunque, di penetrare massicciamente nelle zone sottosviluppate. La strategia gollista può aspirare a divenire la strategia della formazione di un tale blocco europeo, il solo capace di ridimensionare il peso degli Stati Uniti e dell'URSS nell'Europa occidentale, orientale e meridionale e di riconquistare le posizioni perdute a favore delle due superpotenze con la seconda guerra mondiale nel resto del mondo. In questa prospettiva, nella quale potrebbero cercare una soluzione anche i gruppi imperialistici italiani, troverebbero ragioni di sopravvivenza i gruppi imperialistici francesi, che non a caso hanno abbandonato dopo l'avventura di Suez l'alleanza con l'America e hanno letteralmente creato De Gaulle e il gollismo e la loro base sociale parassitaria piccolo borghese.

L'unità dei concorrenti imperialisti di fronte alla crisi francese
Così come una ideologia "arretrata" serve ai fini di una delle strategie più "avanzate" dell'imperialismo, altrettanto paradossalmente l'imperialismo mondiale ha trovato nella crisi di un suo settore un profondo motivo di unità.

La prima grande crisi in una delle principali metropoli dell'imperialismo ha costretto all'unificazione tutti quei gruppi economici, tutti quei partiti, tutte quelle correnti (da quelle americane a quelle sovietiche) che sono divise nella concorrenza interimperialistica, che usano la classe operaia in questa concorrenza, che ieri erano divise nella guerra imperialistica e che domani lo saranno di nuovo e, come sempre, cercheranno di scagliare proletari contro proletari a scannarsi per interessi borghesi. Tutte queste forze, dagli Stati Uniti all'URSS, da De Gaulle al PCF, sono sì il "partito dell'ordine", ma dell'ordine imperialistico, dell'ordine creato dalle guerre imperialistiche. L'unica paura che hanno è che questo "ordine" salti all'aria. Hanno sì paura della "guerra", ma solo di quella "civile", di classe. Per le loro guerre borghesi cercano sempre di tenere il proletariato a disposizione. Ecco perché hanno trovato l'unità contro una lotta proletaria che usciva fuori dai loro schemi imperialistici e che poteva diventare l'inizio di una lotta internazionale del proletariato in tutti i paesi imperialisti, poiché le ragioni di classe che hanno provocato il possente movimento spontaneo degli operai francesi esistono in ogni paese, nessuno escluso. Le classi dirigenti foraggiano i loro intellettuali che teorizzano la "integrazione" della classe operaia, li propagandano, li coccolano, ma non li credono perché sanno perfettamente su quale sfruttamento di classe si basa il loro sistema, perché conoscono perfettamente quale e quanto sia il materiale esplosivo proletario che, con la forza e l'inganno, sono costrette a contenere.

Purtroppo questa coscienza dell'enorme esplosivo rivoluzionario contenuto nelle contraddizioni di classe in ogni paese è presente nei dirigenti capitalisti più che negli operai e ciò è comprensibile perché tra i borghesi possiamo trovarne parecchi che hanno una visione, oltre che la necessaria informazione, unitaria e internazionale della loro classe mentre tra gli operai solo quelli più coscienti ed organizzati nel partito leninista rivoluzionario possono averne una equivalente. Ciò spiega perché di fronte alla crisi francese l'imperialismo mondiale ha rapidamente raggiunto un suo momento di unità, invece di approfittarne per modificare i precedenti rapporti di forza. Ogni precedente lotta monetaria (indebolimento della sterlina e del dollaro, prezzo dell'oro, ecc.) ha trovato subito una momentanea sospensione nel salvataggio del "concorrente" franco.

Questa unità concreta dell'imperialismo dimostra, ancora una volta, la sostanziale natura della teoria staliniana e maoista del "fronte unito antimperialista", per cui il proletariato dovrebbe allearsi con i gruppi imperialisti europei e asiatici per combattere contro l'imperialismo americano. Anche la variante castrista e trotskista di questa teoria, che individua nell'imperialismo americano il perno centrale di un sistema mondiale su cui battere per farlo crollare, non riesce a nascondere la sua sostanziale natura controrivoluzionaria.

L'imperialismo è un sistema mondiale unitario e come tale va combattuto. L'unica lotta antimperialista è la lotta di classe sviluppata all'interno dei rapporti di produzione capitalistici e, dato che tale lotta è per sua natura internazionale, ne deriva che, ad un certo suo grado di sviluppo, si trova ad affrontare tutto il sistema unificato. Se in una lotta democratico-borghese e non socialista, tipo Cuba o Vietnam, l'imperialismo può dividersi in gruppi che vedono nell'indebolimento degli avversari un'occasione per un loro rafforzamento, in una lotta proletaria di tipo francese l'imperialismo si unifica in tutti i suoi gruppi perché è in gioco tutto il sistema di produzione su cui si reggono, indipendentemente dalla loro estensione quantitativa. L'esempio della Francia è lampante e rigetta completamente tutte le teorie di quegli intellettuali borghesi castro-trotskisti e maoisti che all'insegna di un falso antimperialismo cercano di portare settori di classe operaia a schierarsi per i gruppi imperialisti antiamericani, presenti ma soprattutto in formazione.

De Gaulle si è schierato ripetutamente a favore di Nasser, di Castro, di Ho Chi Minh e di Mao e contro gli Stati Uniti. Ma quando la classe operaia francese ha messo in crisi il sistema capitalistico, gli Stati Uniti e tutti gli "antigollisti" di questo mondo sono giunti in soccorso di un sistema di produzione mondiale che non può essere certamente scardinato in un solo paese.

Questo profondo insegnamento della crisi francese ha confermato ancora una volta la teoria scientifica marxista e leninista dell'imperialismo e ha dimostrato nei fatti l'indissolubile unità dell'imperialismo contro le mistificazioni degli "antimperialisti" a senso unico, castro-trotskisti e maoisti. In realtà gli stessi squilibri, provocati dalla lotta per la nuova ripartizione del mercato, così come hanno colpito la Francia, hanno tutta la potenza per colpire gli altri paesi. Lo sviluppo della produzione in tutti questi paesi li costringe ad espandere il loro imperialismo, pena la crisi, la stagnazione, l'arretramento. Ma siccome la necessità di esportazione di merci e di capitali, determinata da una espansione interna che si basa comunque sulla produzione di plusvalore e che determina una accumulazione di capitale "eccedente", è comune a tutti i paesi imperialisti, la concorrenza diventa acuta. Ciò spinge ogni gruppo imperialistico ad aumentare la produttività della sua produzione, ad abbassare i costi, ad intensificare lo sfruttamento della classe operaia, a restringere le basi dell'aristocrazia operaia. E più si intensifica la lotta interimperialistica più aumentano le contraddizioni di classe in ogni paese imperialistico: di conseguenza, aumenta la propaganda delle ideologie controrivoluzionarie, delle ideologie antimarxiste, delle ideologie antioperaie ("integrazione", "terzomondismo", ecc.). Le spinte operaie provocate dall'intensificazione dello sfruttamento da un lato sono represse, dall'altro sono contenute dall'apparato opportunista e, infine, sono deviate sulle ideologie castro-trotskiste e maoiste che, non a caso, la macchina propagandistica del sistema rilancia a tutto volume.

La mancanza di una strategia rivoluzionaria spiega la mancanza del partito
Una serie di insegnamenti pratici emergono infine dalla crisi francese. Questi insegnamenti assumono una portata internazionale in quanto riassumono l'esperienza pratica della lotta di classe valida per ogni paese.

Cerchiamo di individuare e riassumere brevemente gli insegnamenti pratici delle lotte francesi. In primo luogo, rapidità, simultaneità ed estensione dello sciopero generale. Ciò significa che la lotta ha assunto un vastissimo carattere di massa ed ha raggiunto il massimo grado di spontaneità.

È stata proprio l'estensione del movimento a mettere in rilievo due caratteri fondamentali: 1) il sistema capitalistico non ha alcuna possibilità di controllare la spontaneità operaia sul luogo di produzione; 2) la massima spontaneità operaia può essere, invece, controllata a livello politico dagli apparati controrivoluzionari, emanazioni del meccanismo statuale capitalistico.

Sorge a questo punto il problema di come far uscire la spontaneità operaia da questo circolo vizioso. La risposta che danno molte correnti è subito pronta: il partito rivoluzionario. È una risposta che approda però alla domanda di partenza.

Dire partito significa, infatti, dire strategia ed è proprio sulla strategia che si sviluppa il partito. Il fatto che sia mancato il partito rivoluzionario alla spontaneità operaia francese è proprio la prova che è mancata la strategia rivoluzionaria. Il Partito bolscevico, senza la strategia delle Tesi di Aprile, avrebbe fatto in Russia più o meno quello che hanno fatto i gruppi minoritari in Francia: avrebbe oscillato tra l'attivismo unitario, sostanzialmente conciliazionista, e l'attivismo minoritario, sostanzialmente avventuristico.

In pratica sarebbe rimasto prigioniero del Soviet e dell'unità operaia. La strategia del partito rivoluzionario è, invece, quella di separare la classe operaia prospettando una linea d'azione che, per il fatto stesso che è proiettata sulle tendenze di sviluppo di una determinata situazione internazionale, non può essere compresa che dalla parte più avanzata del proletariato. Con questa parte operaia più cosciente, raggruppata sulla base di un chiaro programma e di una chiara strategia, si sviluppa il partito, si formano i quadri, si formano i militanti che in seno alla classe porteranno avanti il processo di successive saldature con altri strati operai mano a mano che le prospettive strategiche, indicate e sostenute dal partito in posizione di minoranza, troveranno riscontro nello sviluppo degli avvenimenti reali e nel conseguente spostamento delle masse. Alla classe operaia francese mancava, è mancata, manca la strategia rivoluzionaria. Perciò manca il partito. Perciò l'apparato controrivoluzionario, dal PCF al PSU, ha potuto controllare la spontaneità operaia. In questi esatti termini occorre vedere il problema della mancanza del partito rivoluzionario in Francia.

Cerchiamo di affrontare il problema da un altro angolo visuale.

La spontaneità operaia per la sua stessa estensione ha finito con l'arenarsi nell'occupazione massiccia delle fabbriche. Da lì non poteva uscire e difatti non è uscita. La classe operaia è rimasta paralizzata dalla sua stessa spontaneità. Nella misura in cui ha posto problemi di potere li ha posti alle varie frazioni della classe capitalista e non per sé stessa. Ponendo, invece, il problema della sua dittatura avrebbe posto il problema del suo potere, avrebbe avviato un processo di formazione di un dualismo di poteri. Ebbene, era storicamente comprensibile che una classe operaia soggetta da quarant'anni a ideologie controrivoluzionarie, non avrebbe avuto la coscienza di porre il problema del potere nei termini della sua dittatura e di avviare, di conseguenza, il processo di formazione del dualismo di poteri. Infatti non ha espresso né l'una né l'altro. Spontaneamente non lo ha fatto perché spontaneamente non poteva farlo. Doveva farlo quel gruppo di militanti, quella minoranza di operai coscienti che per questo stesso fatto avrebbe assunto il ruolo di partito rivoluzionario, indipendentemente dalla sua consistenza organizzativa. Tutta l'esperienza delle lotte francesi ci dimostra che non manca una avanguardia di classe su cui sviluppare un partito leninista.

Il punto centrale non è quello organizzativo. Il partito non è la somma di gruppi ma lo sviluppo di una strategia.

Mettere assieme i gruppi francesi è fare un partito con una somma di errori. Anche per questa ragione il problema del partito in Francia non è un problema di gruppi ma un problema che riguarda l'esperienza internazionale del proletariato. I gruppi in Francia corrispondono solo ad un primo episodio di una lotta che investe il proletariato internazionalmente. In questa esperienza l'avanguardia operaia francese maturerà la consapevolezza della soluzione di tutta una serie di problemi politici che nella crisi di maggio non è stata in grado di affrontare, rimanendo paralizzata dall'ideologia dell'unità operaia. Nella misura in cui si eleverà la coscienza di questi problemi avremo lo sviluppo del partito non solo in Francia ma su scala internazionale.

Se la crisi francese rientra in un contesto internazionale e se alla sua soluzione hanno contribuito internazionalmente tutti i gruppi imperialistici, a maggior ragione la sua trasformazione in crisi rivoluzionaria non poteva essere compito esclusivo dell'avanguardia francese e la mancanza del partito rivoluzionario in Francia era, in sostanza, la mancanza del partito internazionale.

Questa è, in fondo, la vera dimensione internazionale degli insegnamenti pratici che ci vengono dalla lotta di classe in Francia.

(" Lotta Comunista " n. 27-28, maggio-giugno 1968)

 


Ultima modifica 03.02.2003