La mobilitazione totale

Ernst Jünger (1930)


Pubblicato la prima volta in: Krieg und Krieger (Guerra e guerrieri), pp. 9-30, Berlino, 1930 (aprile).

Traduzione indiretta dall'inglese di: Leonardo Maria Battisti

Fonte: The Heidegger Controversy, The MIT Press, 1992, pp. 119-39. Tradotto da Joel Golb e Richard Wolin.

«L'esercito è divenuto fine precipuo dello Stato e fine a sé stesso; i popoli esistono solo per offrir e nutrir i soldati» [Engels: Teoria della violenza, II].

«Non voglio tanto attirare la vostra attenzione sul mio scritto sulla Mobilitazione Totale, quanto piuttosto sul pensiero che lo sottende. Cogliere immediatamente che si tratta di un pensiero con il quale potremo lavorare, che potremmo applicare in svariati modi nel nostro mondo empirico. È una chiave che si spera possa essere impiegata» [Jünger: Lettera a Ludwig Alwens, 1930.04.04].

«Della Mobilitazione Totale si può dire che essa è già entrata, come alcuni altri miei lavori, nella coscienza collettiva. Se la inserisco tra queste «foglie» e queste «pietre», è per l’impressione che la formula sia più nota del contenuto. Ora, la Mobilitazione Totale va intesa come una funzione della forma del Lavoratore: essa copre quell’ambito in cui tale forma si manifesta come processo organizzativo. Occorre però osservare che anche la parola «lavoratore» continua a essere pronunciata con un vago imbarazzo. Quando ci sforziamo di descrivere il lavoro come una nuova, ampia potenza universale non intendiamo affatto lasciarci coinvolgere nelle noiose discussioni in corso tra i vari segretari di partito. (Fra gli strani equivoci che più mi hanno sorpreso c’è anche quello per cui nella forma del Lavoratore andrebbe ravvisato un essere umano). In nessun paese al mondo si ha il coraggio di guardare in faccia la coerenza implacabile e la spietatezza planetaria di quel grande processo: di fronte a quest’ultima il programma di Cigalev è ben poca cosa. Si continua perciò a lavorare con concetti generali di natura economica, morale o addirittura romantica. È in ogni caso un marchio peculiare della nostra epoca il fatto che ovunque l’agire è molto più coerente del pensare. Il ritmo dei mutamenti materiali è straordinario. Qualunque possa essere l’esito delle decisioni che così febbrilmente si preparano, il risultato ultimo al quale tendono senza eccezione consisterà nel profilarsi sempre più nitido della forma» [Jünger: Prefazione a Foglie e pietre, 1934].


1.

Ripugna allo spirito eroico cercar l'immagine della guerra a un livello controllabile dall'agir umano. Ma le tante trasformazioni e maschere imposte alla pura forma [Gestalt] della guerra al variar dei tempi e dei luoghi offrono a tale spirito uno spettacolo avvincente.

Tale spettacolo ricorda i vulcani, che eruttano sempre la stessa lava, benché siano attivi in luoghi assai diversi. Aver preso parte a una guerra è un po' come esser stati nella zona di una di tali montagne di fuoco. Benché lo Hekla islandese sia diverso dal Vesuvio sul Golfo di Napoli, la diversità dei paesaggi si cancella quanto più ci si avvicina alle fauci ardenti del cratere; e dove erutta la passione pura (cioè soprattutto nella lotta immediata per la vita e la morte) è accessorio sapere la data dello scontro, le idee sostenute e le armi usate. Ma ciò non è il tema di questo saggio.

Bensì mi sforzerò di raccogliere alcuni fatti che contraddistinguono l'ultima guerra (la nostra guerra, il maggiore e decisivo evento di quest'epoca) dalle altre guerre di cui si è tramandata la storia.

2.

La peculiarità di questa grande catastrofe è forse meglio esibibile dicendo che essa infuse lo spirito del progresso nel genio della guerra. Nonché per la lotta fra nazioni; ciò vale pure per la guerra civile scoppiata in molte di esse. Fra tali due fenomeni (Guerra mondiale e rivoluzione mondiale) c'è un intreccio molto più stretto di quanto appaia; essi sono due facce di un evento di portata mondiale, sotto molti aspetti interdipendenti in ciò che concerne sia la loro origine sia il loro emergere.

Invero la natura celata dietro il nome vago e scintillante di «progresso» riserva al pensiero ancora strane scoperte. L'attitudine invalsa a farsene beffe è superficiale. La si può trovare sì in tutte le migliori intelligenze del XIX sec.; ma dalla nausea per la piattezza e la monotonia dei risultati del progresso deriva un sospetto: la fonte da cui discendono quei risultati è in sé più significativa? Dopotutto, pure la digestione dipende dalle energie di una vita meravigliosa e inspiegabile. Oggi ci sono ragioni per asserire che il progresso non sia progressione, ma è più importante chiedersi se il suo vero significato non sia più segreto e di ordine diverso da quello esibito con la maschera a prima vista trasparente della ragione.

Proprio la sicurezza con cui i movimenti progressisti conducono a risultati contrari alle loro intenzioni fa presentire che qui, come in tutte le situazioni della vita, prevalgano impulsi più segreti delle intenzioni. Va bene indulgere al disprezzo delle marionette di legno del progresso, ma i fili motorii di queste restano invisibili.

Volete saper la struttura delle marionette? La guida più piacevole è il libro di Flaubert: Bouvard et Pécuchet1. Volete invece indagar le potenzialità dei loro movimenti? Allora già molti passi di Pascal2 e Hamann3 offrono intuizioni notevoli, pur senza prove.

«Pure le nostre fantasie e illusioni, le nostre fallaciae opticae e i nostri sofismi fanno parte dell'ordine creato da Dio»4.

Frasi simili in Hamann sono frequenti; esprimono una sensibilità che tenta di riportare le ricerche della chimica sul terreno dell'alchimia. Ivi non cale a quale disciplina attribuir l'illusione ottica del progresso, perché mi rivolgo un lettore del XX sec., e non faccio un lavoro di demonologia. Ma è certo che solo una forza di tipo cultuale, una fede, poteva osare estendere sull'infinito il paradigma dell'“utilità ovvero della convenienza ad uno scopo” [Zweckmäßigkeit].

Chi dubiterebbe che il progresso sia la grande religione popolare del XIX sec., la sola a godere di una reale autorità e di un credo incontrastato, senza alcuna critica?

3.

In una guerra scoppiata in un clima siffatto, il rapporto fra ciascun belligerante & il progresso doveva svolgere un ruolo decisivo. È qui che va cercato il motore morale dell'epoca: il suo influsso sottile, imponderabile, supera gli eserciti più forti e dotati delle più moderne armi di distruzione prodotte dall'èra della macchina: perché riesce a reclutare le sue truppe pure nel campo avversario.

Per comprendere il fenomeno ora introduco il concetto di Mobilitazione Totale: è finita da tanto l'epoca in cui bastava inviare in battaglia centomila reclute sotto una guida sicura (come nel Candide di Voltaire5) e in cui, quando Sua Maestà perdeva una battaglia, il primo dovere del suddito era tenersi calmo6. Ancora nella seconda metà dell'800 i governi conservatori potevano preparare, condurre e vincere guerre nell'indifferenza o nel rifiuto degli istituti rappresentanti la popolazione. Ciò presupponeva sì uno stretto rapporto fra l'esercito & la Corona (di cui il nuovo sistema della coscrizione obbligatoria era una variante superficiale) che apparteneva ancora, nel suo nucleo intimo, al mondo patriarcale. E presupponeva una prevedibilità delle spese militari, che rendeva la guerra uno sforzo finanziario notevole ma non illimitato. In tal senso pure la mobilitazione generale costituiva ancora una misura parziale.

Tale restrizione non deriva solo dalla limitatezza dei mezzi, bensì da una specifica ragion di Stato. Per un istinto naturale il monarca si guarda dall'usar risorse fuori dal patrimonio della casa reale. Attinger al suo tesoro privato è più sicuro di un credito accordato dai rappresentanti del popolo. Pure nel momento decisivo della battaglia preferisce aver di riserva la sua Guardia, non un contingente di volontari. Tale istinto in Prussia perdurò fino alla fine dell'800 ed affiora fra l'altro nell'aspra controversia sul servizio militare triennale (dal punto di vista della corona le truppe di veterani sono più affidabili, mentre la leva corta è tipica degli eserciti di volontari). Spesso incontriamo perfino la rinuncia (guari incomprensibile per noi) a migliorare e potenziare gli armamenti, ma pure tale rinuncia cela dei motivi. Ogni progresso delle armi da fuoco (specie della gittata) indirettamente minaccia le forme della monarchia assoluta. Ogni progresso della gittata promuove l'abilità del singolo tiratore, mentre la salva simboleggia la cieca esecuzione dell'ordine ricevuto. Guglielmo I fu l'ultimo a non amar l'entusiasmo delle folle, poiché sgorga da una fonte che (come l'otre di Eolo) non contiene solo lo scrosciar degli applausi. L'autorità si misura dal saper perdere una guerra, non dalla grandiosità dei trionfi accordatigli.

Così la mobilitazione parziale corrisponde all'essenza della monarchia, trasgreditrice dei suoi limiti allorché costretta a coinvolgere nell'apparato militare le forme astratte dello spirito, del denaro, del «popolo» (cioè potenze della nascente democrazia nazionale). Col senno di poi si può dire che tal coinvolgimento era inevitabile. Capire come «dosarlo» fu il nucleo dell'arte di governo dell'800. Tale contesto spiega il significato della frase di Bismarck: «la politica è l'arte del possibile».

Si può ora seguire come l'atto della mobilitazione (che in certi Paesi, pure a guerra già scoppiata, restava diritto esclusivo della Corona ordinarla, senza alcuna controfirma) diventi sempre più decisivo allorché ogni vita sia convertita in energia, ogni legame sia sempre più precario a favore della motilità. Fenomeni di varia natura causarono tale novità. Es. Tolto l'ordinamento in tre stati e i privilegi della nobiltà, svanisce il concetto di casta guerriera: la difesa armata del Paese non è più dovere e privilegio di soldati di mestiere, bensì divien compito di chiunque idoneo alle armi. Così l'enorme aumento dei costi di equipaggiamento rende impossibile provvedere alle spese di guerra solo col tesoro della Corona; e rende uopo sfruttare tutti crediti, e requisire risparmi anche minimi per far funzionare la macchina. L'immagine stessa della guerra come azione armata cede a quella, più vasta, di un gigantesco PROCESSO LAVORATIVO [Arbeitsprozesses]. Accanto agli eserciti che si scontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell'industria militare: in generale l'esercito del lavoro. Nell'ultima fase dell'evoluzione finora percorsa (alla fine della Guerra mondiale) qualsiasi attività (pure quella di una cucitrice domestica) è almeno indirettamente collegata alla produzione bellica. Lo sfruttamento totale dell'energia potenziale (che muta gli Stati industriali belligeranti in fucine di Efesto) appalesa che è cominciata l'Era dell'Operaio7 [Arbeitszeitalter]: tale prelievo fa della Guerra mondiale un evento storico più significativo della Rivoluzione francese. Per dispiegare queste energie non basta equipaggiare solo il braccio di chi combatta; serve un'organizzazione che arrivi fino al più tenue nervo vitale. Per tale scopo serve la MOBILITAZIONE TOTALE: convogliare con un sol gesto la rete complessa e ramificata della vita moderna nella linea ad alta tensione dell'attività bellica.

Una mobilitazione di tali proporzioni all'inizio della guerra non fu prevista. Eppure ne furono segni certe misure apparentemente irrelate: il forte impiego di volontari e riservisti fin dall'inizio del conflitto; il blocco delle esportazioni; le disposizioni di censura; i cambi del valore delle valute. Durante la guerra tale processo guadagnò coerenza: per esempio, il razionamento delle materie prime e delle derrate alimentari, la militarizzazione dei rapporti di lavoro [Arbeitsverhältnisses], il servizio civile obbligatorio, l'armamento delle navi mercantili, l'imprevedibile estensione dei poteri degli Stati Maggiori, il «programma Hindenburg»8, la battaglia fatta da Ludendorff per fondere l'esecutivo politico e militare.

Eppure, malgrado gli spettacoli grandiosi quanto terribili delle ultime «battaglie di materiali» (in cui l'umano talento organizzativo celebrò i suoi sanguinosi trionfi) non furono ancora raggiunte le possibilità estreme, che saranno raggiunte (pur limitandosi al lato tecnico del processo) solo se l'ordine bellico sarà il modello dell'ordine pubblico che regola lo stato di pace. Infatti in molti Paesi del dopoguerra nuovi metodi di produzione di armamenti ricalcano il modello della Mobilitazione Totale.

Ne sono esempio fenomeni come la restrizione crescente della libertà individuale (una rivendicazione che invero è sempre stata problematica). Tale privazione (allo scopo di levar ogni cosa che potrebbe non esser un ingranaggio dello Stato) fu prima in Russia e in Italia, e poi in Germania, ed è prevedibile che tutti i Paesi che vorranno aver peso internazionale dovranno fare così per essere capaci di scatenare tale nuovo tipo di forze. Altro fenomeno (apparso in Francia) è il nuovo modo di considerare i rapporti di forza dal punto di vista della énergie potentielle, e l'America dà l'esempio di una cooperazione, già avviata in tempo di pace, fra gli Stati Maggiori e il sistema industriale. E vanno al cuore del problema dell'equipaggiamento alcune questioni toccate dalla letteratura tedesca di guerra per costringere l'opinione pubblica a dare giudizi su cose militari, in apparenza retrospettivi, ma in realtà concernenti un futuro prossimo. Il «piano quinquennale» russo segna il primo storico tentativo di convogliar gli sforzi collettivi di un grande impero in un unico alveo. È notevole come qui il pensiero economico si sovverta. L'«economia pianificata» (fase suprema della democrazia) trascende sé stessa per divenir puro spiegamento di forze. La spinta delle masse finisce col provocare stasi: una giravolta, questa, osservabile in tanti fenomeni contemporanei.

Ma pure la difesa esige sforzi straordinari come l'attacco. Anzi, la difesa esibisce di più la cogente legge planetaria. Come ogni vita ha in sé il germe della propria morte, così la comparsa delle grandi masse ha in sé una democrazia della morte. È ormai finita l'età del colpo mirato. Il comandante di una squadriglia aerea che di notte dà l'ordine di bombardare non distingue più militari e civili, così come la nube di gas letale colpisce ogni forma di vita come il meteo. Ma la possibilità di siffatte minacce non presuppone una mobilitazione parziale o generale: presuppone una Mobilitazione Totale, estesa fino al neonato nella culla (minacciato come tutti gli altri, anzi di più).

Potremmo fare altri esempi, ma basta esaminare la PROPRIA VITA (nel suo totale scatenarsi e spietato disciplinarsi), le aree produttive fumanti e scintillanti di luci, la fisica e la metafisica dei traffici, i motori, gli aerei, le metropoli brulicanti di gente, per intuire con un senso di piacere e paura che qui nessun atomo è estraneo al lavoro, e che siamo totalmente impegnati in tale processo furioso. La Mobilitazione Totale non è tanto eseguita, bensì si compie da sé, essendo, in guerra come in pace, l'espressione della legge misteriosa e cogente a cui ci consegna l'età delle masse e delle macchine. Ormai è indubbio che ogni singola vita è un'esistenza da operaio; e che alle guerre dei cavalieri, dei re e dei borghesi succedano le guerre degli operai – guerre della cui struttura razionale e della cui spietatezza il primo grande conflitto del XX sec. ci ha già dato un'idea.

4.

Si è sfiorato il lato tecnico della Mobilitazione Totale. Servirebbe seguirne i perfezionamenti dai primi reclutamenti di masse ordinati dalla Convenzione e dalla riorganizzazione militare operata da Scharnhorst9 fino agli energici programmi di armamenti concepiti negli ultimi anni di guerra, quando i Paesi mutarono in fabbriche gigantesche per produrre alla catena di montaggio, notte e giorno, armate da spedir al fronte, dove un sanguinoso annientamento altrettanto meccanizzato fa da mercato consumatore. Tale visione (che ricorda il lavorio preciso di una turbina alimentata a sangue) traumatizza l'animo eroico, ma il suo contenuto simbolico è inequivocabile. È una declinazione in ambito bellico di una conseguenza diretta della logica dell'epoca che viviamo.

Il lato tecnico della Mobilitazione Totale non è però quello decisivo. Il suo principio, come il principio di ogni tecnica, sta più in profondità: ivi lo definiamo la disponibilità [readiness] alla mobilitazione. Tale disponibilità c'era in tutti i Paesi: la Guerra mondiale è stata una delle guerre più popolari che la storia conosca. Questo perché accade in un'epoca che poteva ammettere solo guerre popolari. D'altra parte (salvo piccole guerre coloniali e razzie) i popoli avevano potuto godersi un periodo di pace relativamente lungo. Ma, all'inizio di questo saggio, promisi di negligere la descrizione degli strati più profondi (quel misto di passioni brutali e sublimi che è nell'uomo, e che lo rende disposto in ogni tempo all'appello della guerra), per decifrare anzi il concerto dei diversi segni che annunciarono e accompagnarono tale conflitto.

Ante simili imprese (comunque si esprimano: o in edifici poderosi come le piramidi e le cattedrali, o in guerre che contraggono fino all'ultimo nervo vitale) il cui segno peculiare è “l'assenza di scopo” [Zwecklosigkeit], non bastano analisi economiche, anche penetranti. Ecco perché la scuola del materialismo storico tocca solo aspetti inessenziali del fenomeno. Tali imprese devono far pensare, piuttosto, a un fenomeno cultuale.

Definendo il progresso come la grande religione popolare del XIX sec., indicai già donde venisse l'efficacia dell'appello alla guerra presso le masse, il cui aiuto era indispensabile. Per queste masse era tanto più difficile sottrarsi alla guerra quanto più si faceva appello alle loro convinzioni, cioè quanto più puramente i discorsi che dovevano mobilitarle esprimevano un orientamento progressista. Per quanto rozzi o grossolani tali discorsi fossero, è indubbia la loro efficacia: ricordano quelle esche colorate usate nelle battute di caccia per attirar la selvaggina a tiro dei fucili.

Manco uno sguardo superficiale (che vorrebbe una pura ripartizione geografica dei Paesi coinvolti in vincitori e vinti) può negare il vantaggio dei Paesi «progrediti»: un vantaggio che pare basato su una sorta di automatismo, nel senso delle teorie darwiniane, della selezione dei «più adatti»10. A render tale automatismo significativo è che pure Paesi annoverati fra i vincitori, come la Russia e l'Italia, hanno subito un'ampia distruzione della loro compagine statale. Sotto tale luce, la guerra pare una pietra di paragone infallibile, il cui esito obbedisce a rigorose leggi interne, come un sisma che saggia le fondamenta di tutti gli edifici.

Inoltre, nell'epoca in cui è forte la fede nei diritti umani universali, le forme monarchiche risultano fragili ante le distruzioni della guerra: oltre a corone minori, rotolano nella polvere pure quelle tedesca, prussiana, russa, austriaca, turca. Lo Stato in cui sopravviveva come un fantasma l'universo delle forme medioevali (come un'isola residuo di un'èra geologica anteriore), l'Austria-Ungheria, è risucchiato come un palazzo fatto implodere; e l'ultima monarchia davvero assoluta di Europa (lo zar) è soccombuta a una guerra civile come ad un'infezione di lunga latenza che si palesa all'improvviso con sintomi orribili.

D'altra parte colpisce l'insospettata forza d'inerzia di cui la struttura del progresso gode pure in situazioni di grande debolezza materiale. Così la repressione nel 1917 degli ammutinati dell'esercito francese11 testimonia un secondo miracolo della Marna12, di natura morale, più sintomatico della natura di questa guerra rispetto al primo puramente militare del 1914. Pure negli Stati Uniti, retti da costituzione democratica, la mobilitazione poté procedere con misure il cui rigore risultò impossibile in uno Stato militare come la Prussia, Paese dal suffragio censitario. E chi potrebbe dubitar che vincitrice della guerra sia l'America (il Paese «privo di castelli diroccati e rupi di basalto13», di storie di cavalieri, di briganti e di fantasmi)14? Perché decisiva è stata la capacità dell'America di metter in atto la Mobilitazione Totale (non se fosse o no uno Stato militare).

Invece la Germania doveva necessariamente perdere (avesse pure vinto la battaglia della Marna o la guerra sottomarina) poiché (pur avendo preparato con serietà la mobilitazione parziale) si negò le forze di una mobilitazione totale; e poiché l'intima natura della sua macchina bellica le consentiva di raggiungere, sopportare e soprattutto sfruttar solo un successo parziale. Per legar alle nostre armi un successo di natura totale avremmo dovuto prepararci a un'altra battaglia di Canne, a cui Schlieffen dedicò il suo opus vitae15. Ma prima di trarre ulteriori conclusioni da questo punto, cercherò ora di illustrare con altri elementi il rapporto fra progresso & Mobilitazione Totale. 

5.

Per chi cerchi cogliere tutta la tonalità della parola progresso è evidente che l'omicidio politico di un personaggio regale, nel secolo dopo la decapitazione di Luigi XVI, doveva suscitare un'emozione meno forte e meno radicata nella sfera sacrale, rispetto ai tempi in cui un Ravaillac o ancora un Damiens venivano giustiziati in pubblico fra tormenti orribili come messi infernali16. Nella scala di valori del progresso il principe è una categoria umana non particolarmente amata.

Immaginiamo per un istante un'idea assurda: un massimo agente pubblicitario deve preparar la propaganda per una guerra moderna, potendo sceglier fra due mezzi per suscitar la prima ondata di sdegno: l'attentato di Sarajevo o la violazione della neutralità del Belgio. Non ci sono dubbi su quale dei due gli apparirà più efficace. Poco importa quanto sia casuale: il pretesto della Guerra mondiale possiede un valore simbolico perché due princìpi si erano scontrati attraverso gli attentatori di Sarajevo e la loro vittima (l'erede della corona asburgica): il principio nazionalista & il principio dinastico, il moderno «diritto all'autodeterminazione dei popoli» & il principio di legittimità (con fatica restaurato al Congresso di Vienna con arti politiche di vecchio stile).

Certo è una buona cosa esser in senso buono inattuali17, e operar con energia per conservar la tradizione. Ma ciò presuppone la fede. Invece dell'ideologia degli Imperi centrali si può dir che non fu attuale né inattuale, né superiore al proprio tempo. Essa fu insieme attuale e inattuale, e il risultato poteva essere solo un misto di cattivo romanticismo e di liberalismo sbilenco. Così, all'osservatore non potrà sfuggire una preferenza pegli elementi scenici démodé, per uno stile tardoromantico (specie quello dell'opera wagneriana18). Parole d'ordine come la «fedeltà nibelungica»19, o le attese che l'Islam ripone nell'appello a una Guerra Santa, attengono a tale quadro. Bada: questi sono casi di questioni tecniche e organizzative: come è mobilitata la sostanza; non la sostanza in sé. Ma proprio tale genere di errori rileva i difetti del rapporto della classe dirigente sia con le masse, sia con le potenze più profonde.

Pure la celebre battuta involontaria che la neutralità belga siano «pezzi di carta»20 ha il difetto di essere stata pronunciata con un secolo e mezzo di ritardo, e con un atteggiamento che aveva colto forse lo spirito del romanticismo prussiano, ma che non era prussiano nella sostanza. Federico il Grande avrebbe potuto parlar così nello spirito del dispotismo illuminato e derider carte di pergamena ingiallita, ma Bethmann Hollweg avrebbe dovuto saper che oggi un pezzo di carta, come quello su cui è scritta una costituzione, ha quasi lo stesso valore di un'ostia benedetta per un cattolico; e che se l'assolutismo può rompere trattati, la forza del liberalismo sta proprio nell'interpretarli. I dispacci diplomatici prima dell'entrata in guerra degli USA girano attorno al principio della «libertà dei mari»: un buon esempio di come in quest'epoca l'interesse di pochi possa assumere il rango di un postulato umanitario, di una questione generale, che tocca l'umanità intera. La socialdemocrazia tedesca, uno dei pilastri del progresso in Germania, seppe capire la parte dialettica del proprio compito identificando il senso della guerra con la distruzione del regime antiprogressista zarista.

Ma ciò è nulla paragonato ai mezzi di cui disponeva l'Occidente libero per mobilitare le masse. Chi potrebbe negare che la civilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che sappia parlar la sua lingua naturale nelle grandi città e usar mezzi e concetti estranei o nocivi per la Kultur? La Kultur non si presta alla propaganda né alla pubblicità, poco importa l'usanza (più o meno cringe) di riprodurre in milioni di copie le teste dei grandi spiriti tedeschi su francobolli o e banconote.

Beninteso: lungi da me deplorare l'inevitabile. Noto solo che in tale guerra la Germania non riuscì a porsi in vantaggiosa sintonia con checchessia lo spirito del tempo. Così come non riuscì a proporre un principio superiore a quello spirito appo la propria o l'universale coscienza. Invece si è cercato di reperire i simboli che il combattente desidera appuntare sulla propria bandiera o nell'ambito del romanticismo e dell'idealismo, o nell'ambito del razionalismo e del materialismo. Ma la validità di quegli ambiti (presi o dal passato o da culture estranee al genio tedesco), non basta a dare alla mobilitazione di uomini e mezzi quel grado estremo di fede religiosa richiesto da una guerra contro il mondo intero.

Così ora è da ricercare: come l'imponente Germania non abbia toccato la sostanza elementare, l'energia primigenia del popolo? All'inizio di questa crociata della ragione (cui i popoli furono chiamati sotto l'insegna d'un dogma sì evidente e persuasivo) lascia ammirati come la gioventù tedesca mutò la leva in ricerca della morte, unica nella storia, con ardore, entusiasmo, desiderio.

Se si fosse chiesto a uno di questi giovani perché andasse al fronte, sarebbe stato impossibile ottener una risposta chiara. Non avremmo sentito dire che era la guerra contro la barbarie e la reazione, o per la civiltà, per la liberazione del Belgio o la libertà dei mari; forse avremmo sentito «per la Germania», le parole con cui i reggimenti di volontari caricavano.

Ma tale ardore offerto a una Germania inesplicabile e invisibile, bastò per una mobilitazione che coinvolse i popoli fino all'ultima fibra. Cosa sarebbe successo se avesse avuto fin dall'inizio una direzione, una coscienza, una forma [Gestalt]?

6.

La Mobilitazione Totale come misura organizzativa è solo un indizio della mobilitazione superiore che il tempo esercita su di noi, la quale segue una propria legge, e la legge umana, se vuol essere efficace, deve scorrerle parallela.

Nulla esibirà tale principio più dell'apparizione, durante la guerra, di forze contrarie alla guerra stessa. Eppure tali forze sono affini alle potenze belligeranti più di quanto appaia. La Mobilitazione Totale muta terreno ma non senso quando (anziché eserciti regolari) aziona le masse in una guerra civile. Da quel momento l'azione trascende gli spazi dell'ordine della mobilitazione strettamente militare, come se le forze tenute fuori chiedessero di prender parte al conflitto. Maggiore sarà la massa di energie che la guerra riesce a mettere a suo profitto fin dall'inizio, minori saranno gli errori nel suo ulteriore corso.

Dissi che la Germania poteva mobilitare lo spirito del progresso solo in parte. Che in Francia la situazione fosse più idonea si può veder dall'esempio, fra tanti, di H. Barbusse. Costui, di per sé sfavorevole alla guerra, vide però come sola possibilità di restar fedele alle sue idee accettare in un primo tempo quella guerra, che si rappresentò come una lotta del progresso, della civiltà, dell'umanità e della pace contro un nemico di tutti quei valori: «bisogna uccidere la guerra nel ventre della Germania»21.

Quale che sia la dialettica in atto, i suoi risultati sono cogenti. Un uomo il cui lato guerriero appare quasi sparito non è capace di rifiutare l'arma offertagli dallo Stato, perché la sua coscienza si sente in obbligo. Possiamo vederlo che si tortura allorché monti la guardia nel deserto infinito della trincea, per poi lanciarsi all'attacco al momento dovuto come tutti gli altri, sotto il fuoco d'artiglieria della battaglia di materiali. Cosa c'è di strano in ciò? Barbusse è un combattente come tutti gli altri, un soldato dell'Umanità22, che deve accettare i fuochi di artiglieria e i gas bellici, quanto la Chiesa cristiana deve accettare la spada secolare. Certo, un Barbusse doveva viver in Francia per lasciarsi mobilitare a tale livello.

Pei Barbusse tedeschi la situazione era più difficile. Solo pochi intellettuali sostennero fin dal primo giorno una posizione neutrale e decisero di sabotare la conduzione della guerra. Invece la maggioranza cercò di farsi inquadrare nell'esercito. Facemmo l'esempio della socialdemocrazia tedesca che (in disprezzo del suo internazionalismo) constava di lavoratori tedeschi, cioè era vulnerabile a uno slancio di eroismo. Ma, prescindendo da ciò, pure nella sua ideologia imboccò la strada di un revisionismo che le sarebbe stato poi imputato come un «tradimento del marxismo». Si può seguir in dettaglio tale processo dal discorso tenuto nei mesi critici, in qualità di deputato al Reichstag, dal capo socialdemocratico Ludwig Frank, caduto poi, volontario quarantenne, nel settembre del 1914 alla battaglia di Noissoncourt, con una pallottola in testa.

«Noi, compagni senza patria, sappiamo di essere pur sempre figli (seppure illegittimi) della Germania, e di dover combattere per la nostra patria contro la reazione. Quando scoppia una guerra, pure i soldati socialdemocratici fanno coscienziosamente il loro dovere» (29 agosto 1914).

Tale frase istruttiva contiene in germe i due aspetti del conflitto, Guerra e Rivoluzione, da cui sarebbe dipeso il destino.

Chi voglia studiare tale dialettica in dettaglio trova tante minutaglie istruttive nelle annate di guerra dei giornali e delle riviste progressiste. Es. Maximilian Harden (il direttore dello Zukunft), forse il più noto fra i giornalisti dell'età guglielmina, iniziò ad allinear la sua attività pubblica con gli obiettivi dello Stato Maggiore. Al riguardo si noti solo (perché rilevatore) come seppe assumere atteggiamenti altrettanto radicali per la guerra e per la rivoluzione. Pure il Simplicissimus, un organo di stampa che fece una satira nichilistica contro ogni dovere, contro l'esercito, assunse di colpo una linea sciovinista. D'altro canto, la qualità di tale giornale cala al salir dell'elemento patriottico: cioè con l'abbandono del suo terreno di forza.

Il dissidio interiore, dal ruolo determinante, si palesa nel modo più potente nella personalità di Rathenau. La sua figura è resa tragica da quel dissidio, per chi cerchi di renderle giustizia. Com'è possibile che Rathenau (che si era «mobilitato» integralmente, che aveva svolto un ruolo preciso nell'organizzazione della macchina bellica, e che ancora poco prima della sconfitta tedesca agitava l'idea di una leva in massa23) potesse subito dopo di essa asserir la celebre frase che la storia del mondo avrebbe perso il suo senso se i rappresentanti del Reich fossero sfilati vincitori dalla Porta di Brandeburgo a Berlino? Qui è evidente come una mobilitazione parziale possa imporsi alle capacità tecniche di un uomo ma senza entrare nel suo cuore.

7.

Il trionfo riservato al crollo della Germania dall'esercito segreto del progresso e il suo invisibile Stato Maggiore (mentre gli ultimi combattenti stavano ancora affrontando il nemico) ricorda il giubilo di una vittoria. Esso fu il migliore alleato di quelle armate occidentali che avrebbero presto varcato il Reno, era il loro cavallo di Troia. La scarsa resistenza con cui le autorità costituite credettero le proprie posizioni di comando indica l'accettazione del nuovo spirito. Nessuna differenza essenziale contraddistingueva le parti in conflitto.

Ciò spiega pure perché in Germania la rivoluzione si produsse in forme innocue. Perfino nei giorni finali, i ministri socialdemocratici del Reich agitarono di mantenere la Corona. Ciò sarebbe stata solo una misura di facciata: l'edificio era ormai da tempo così gravato dalle ipoteche del progresso da non lasciar sussistere più alcun dubbio sulla vera identità del proprietario.

Ma (oltre al fatto che le stesse autorità prepararono il cambio di regime), c'è un'altra ragione per cui il cambio assunse in Germania una forma meno drastica che, ad esempio, in Russia. Spiegai che gran parte delle forze progressiste fu mobilitata dalla guerra, con un dispendio tale da non poter reinvestire alcunché nella lotta interna. Per dirla in forma più diretta: è diverso se a prendere il comando siano degli ex ministri, anziché un'aristocrazia rivoluzionaria formatasi nell'esilio siberiano.

Perdendo la guerra la Germania entrò nel mondo occidentale, ottenendo la Zivilisation, la libertà e la pace nel senso dei Barbusse. Cos'altro aspettarsi dacché la Germania propagandava quei valori, e mai avrebbe osato portare la guerra fuori da «muro che cinge l'Europa» (il che avrebbe richiesto di sfruttare di più valori autoctoni e di avere altre idee e altri alleati)? Andar in cerca di una sostanza autoctona era impossibile, se non con e attraverso l'ottimismo progressista, come in Russia.

8.

Osservando il mondo come è uscito dalla catastrofe: quale unità di intenti, quale rigorosa consequenzialità storica! Invero, il successo non sarebbe stato più totale neppure aprendo il fuoco con tutti cannoni moderni in un solo punto dove si fossero raccolte tutte le forme fisiche e spirituali, estranee alla nostra civiltà e perdurate nel tempo fin oltre la fine del XIX sec.

Il vecchio carillon del Cremlino ora suona l'Internazionale. A Costantinopoli i bambini nelle scuole imparano l'alfabeto latino, anziché il Corano. A Napoli e a Palermo i poliziotti fascisti regolano il tumultuoso andazzo meridionale con un moderno codice della strada. Edifici parlamentari si inaugurano nei Paesi più remoti e leggendari. L'astrattezza, indi pure la crudeltà, si afferma in tutti i rapporti umani. Al patriottismo subentra un nuovo nazionalismo, stavolta saldato su elementi ideologici presenti nella coscienza. Il fascismo, il bolscevismo, l'americanismo, il sionismo, i movimenti afroamericani, sono altrettante avanzate del progresso, finora ritenute impensabili: il progresso si ribalta su sé stesso, per poi proseguir, dopo una spirale compiuta da una dialettica artificiale, ad un livello semplicissimo. Il progresso inizia a dominare i popoli in forme indistinguibili da quelle di un regime assoluto (senza contare il minor grado di libertà e di comodità). Quasi ovunque la maschera umanitaria è caduta, e appare un feticismo della macchina (per metà grottesco e metà barbarico), un ingenuo culto della tecnica... proprio laddove diviene impossibile impiegare in modo produttivo quelle energie, del cui trionfo distruttivo le armi a lunga gittata e i bombardieri sono il versante militare. Al contempo cresce l'importanza delle masse; la misura del consenso e della visibilità24 diviene il fattore decisivo della vita politica. Ma soprattutto il socialismo e il nazionalismo sono le due grandi macine con cui il progresso sbriciola i resti del vecchio mondo... e poi sé stesso, sua sponte. Per oltre cento anni la «destra» e la «sinistra» si sono contese le masse come una palla, accecate dall'illusione ottica del diritto di voto; e pare sempre che un lato offra riparo dalle pretese dell'altro. Oggi in tutti i Paesi è sempre più palese l'identità di destra e sinistra, e pure il sogno della libertà svanisce come nella ferrea morsa d'una tenaglia. È uno spettacolo grandioso e terribile veder i movimenti delle masse sempre più omologate intrappolati dalle reti dello spirito del mondo. Ogni gesto di esse rende la presa più stretta e implacabile. Agiscono forme di costrizione più forti della tortura perché accolte volentieri. Dietro ogni simbolo di felicità stanno in agguato il dolore e la morte. Felice chi varchi corazzato tali spazi.

9.

Attraverso le falle e le giunture di questa torre di babele, il nostro sguardo scopre già oggi un mondo apocalittico la cui vista gelererebbe il cuore dell'uomo più intrepido. Presto l'era del progresso ci sembrerà altrettanto enigmatica quanto i segreti di una dinastia egizia, benché il mondo gli avesse a suo tempo accordato il trionfo che, per un momento, aureola la vittoria d'eternità. Con estrema violenza, più minacciose di Annibale, le armate grigie avevano bussato alle porte delle grandi città e dei distretti fortificati.

Sul fondo del cratere, la guerra ha un senso che nessun'arte giuridica varrà a disciplinare. I volontari ne ebbero sentore: nel loro giubilo irruppe veemente la voce del daimon tedesco, e si allearono il disgusto dei vecchi valori e il desiderio di una nuova vita. Chi avrebbe pensato che quei figli d'una generazione materialista potesse salutar la morte con tanto fervore? Fu solo l'annuncio di una vita piena a prescinder dal precariato. Come il vero compimento di una buona vita è solo l'accesso alla propria e più profonda natura, così il risultato di tale guerra è per noi solo l'accesso ad una Germania più profonda. Che sia proprio così è provato dall'instabilità che caratterizza l'attuale generazione, non paga di nessuna idea presente né di alcuna immagine del passato. Regna qui una fertile anarchia, scaturita dagli elementi della terra e del fuoco, e custode del germe di un nuovo tipo di sovranità. Una nuova forma organizzativa si annuncia, che aspira a fondere le armi in un metallo, più puro, più solido, a prova di ogni avversità.

Il tedesco ha fatto la guerra con l'ambizione, per lui troppo modesta, di essere un buon europeo. Ma se l'Europa mosse guerra all'Europa, chi poteva vincere altri se non l'Europa? Ma questa Europa, nell'estendersi a tutto il pianeta è divenuta sottile e fragile: l'estensione conquistata corrisponde al crollo della sua forza di persuasione. Ma nuove forze sono sul punto di sorgervi.

Sotto il livello in cui vige la dialettica degli obiettivi bellici, il tedesco ha incontrato una forza maggiore: sé stesso. Così questa guerra è stata per lui anche e soprattutto l'occasione per realizzarsi. Ecco perché la nuova organizzazione che già da tempo ci comanda deve essere una mobilitazione di ciò che è tedesco – e di nient'altro.


Note

1. Nel romanzo incompiuto Bouvard et Pécuchet [†1881] Flaubert caricaturò la stupidità umana e la sopravvalutazione che la borghesia fa di sé stessa attraverso il ritratto di due compagni di avventure.

2. La convinzione anticartesiana di Pascal sui limiti della ragione umana di fronte al mistero e all'infinito interseca lo scetticismo di Jünger di fronte al razionalismo dei lumi.

3. J. G. Hamann [1730-1788] oppose a Kant un pensiero segnato dal misticismo in: Metacritica del purismo della ragion pura [1784]. Goethe e Herder lo riconobbero iniziatore del movimento Sturm und Drang.

4. Lettera di Hamann a Johann Gottfried Herder, 1780.01.02.

5. Nel Candido [1759] Voltaire polemizza contro l'ottimismo generale dei suoi tempi, che rende indifferenti al perdurante dolore del singolo.

6. Nell'ottobre 1806 il comandante della piazza di Berlino, Frederih Wilhelm von der Schulenburg decretò che il re avesse perso solo una battaglia contro Napoleone e che la calma fosse ora un dovere civile.

7. L'Operaio. Dominio e forma [1932] è il titolo della maggior opera di Jünger, da situare nel contesto delle riflessioni sulla tecnica di Heidegger.

8. Il programma Hindenburg del 1916 prevedeva, tramite leggi e ordini appositi, (riprendendo gli stessi termini di Ludendorff) «l'arruolamento di tutto il popolo al servizio dell'economia di guerra».

9. G. J. D. von Scharnhorst [1755-1813]: ufficiale prussiano, riorganizzò nel 1808 l'esercito di Federico Guglielmo III dopo la disfatta del 1806 (insieme con A. von Gneisenau), introducendo il servizio militare obbligatorio per tutti. Con ciò congiunse l'esigenza di un'educazione dei soggetti al servizio di leva alla creazione di una comunità vivente.

10. Malgrado questa sia un'espressione darwiniana, Jünger fu scettico (per la svalutazione degli sforzi umani) circa il darwinismo sociale, diffuso nella Germania Fin de siècle, specie nei circoli popolari.

11. Nel 1917, fallita l'offensiva francese di primavera, sulla spinta degli operai in sciopero in varie città, disertarono numerosi corpi d'armata, sedati dal maresciallo Philippe Pétain, e puniti con durezza.

12. Il miracolo della Marna [1914.09.09] è la ritirata dell'armata tedesca a poca distanza da Parigi, per ordine dei comandanti dell'esercito. Jünger dubita che senza sarebbe stata possibile una vittoria tedesca.

13. Metafora geologica per indicare la “gioventù” del Paese nordamericano.

14. «Amerika, du hast es besser / Als unser Continent, das alte, / Hast keine verfallene Schlösser / Und keine Basalte» [Johann Wolfgang von Goethe: Den vereinigten Staaten, 1827].

15. Alfred von Schlieffen (capo di Stato Maggiore dal 1891 al 1905) elaborò un piano che prevedeva un attacco lampo alla Francia dal Belgio per poi spostare le forze tedesche contro la Russia (Piano Schlieffen). Nel 1909 pubblicò Cannae (classico esempio di battaglia vinta da una minoranza), l'opera di studi storico-strategici cui allude Jünger. Il Piano Schlieffen fu ripreso da von Moltke nella Prima guerra mondiale.

16. François Ravaillac pugnalò il re di Francia Enrico IV nel 1610.05.14. Robert François Damiens fallì un attentato contro il re di Francia Luigi XV nel 1757.01.

17. Allusione alle Considerazioni inattuali scritte da Nietzsche. Nello stesso periodo pure Ernst Bloch sviluppava il concetto di non-contemporaneità in una prospettiva marxista ed utopistica.

18. Il riferimento all'Olandese volante [1843] di Richard Wagner è insolito, poiché Jünger è un autore poco musicale, tanto che l'evocazione del musicista è correlata a quella del filosofo Nietzsche.

19. Allusione alla promessa che fa Grimilde di vendicare suo marito Sigfrido assassinato dai Burgundi.

20. Dopo aver invaso il Belgio, il cancelliere tedesco Bethmann Hollweg [1856-1921] definì «pezzi di carta» i trattati che ne garantivano la neutralità e affermò che la «necessità non conosce legge». Proprio perché egli era un liberale in politica sia interna (introduzione del suffragio universale in Alsazia-Lorena) sia estera (opposizione alla guerra e dimissioni nel 1917), Jünger lo prende come esempio.

21. H. Barbusse fu volontario seppur pacifista. Nel 1916 pubblicò Il fuoco (romanzo autobiografico e antimilitarista). Fondò il gruppo Clarté. Dal 1920 militò fra i simpatizzanti comunisti. Morì nella Russia sovietica.

22. Humanität: umanità in senso morale (non Menschbeit: la specie umana).

23. In un articolo del 1918.10.07 sulla Vossische Zeitung Rathenau, fautore di una leva in massa e della resistenza a oltranza, scriveva: «Dovremo prepararci alla difesa nazionale, ci dovrà essere una sollevazione popolare e si dovrà apprestare un organismo di difesa». In svariati saggi si è espresso sulla struttura della società tedesca. Sarà ucciso da militanti nazionalisti.

24. In tedesco Oeffentlichkeit significa sia il pubblico sia il carattere pubblico di qualcosa. Il suo senso è vicino a ciò che si intende per pubblicità dei dibattiti, anziché alla moderna pubblicità.


CONSIDERAZIONI RETROSPETTIVE

A quasi 50 anni dalla sua prima uscita, e occupato a lungo in altre questioni, ora ho riveduto in via definitiva questo saggio. Nel corso dei decenni ciò è capitato più volte, per via delle frequenti ristampe. Tale rilettura serve a liberare il nucleo sostanziale dalle circostanze accidentali.

Il lettore non prevenuto noterà che tale nucleo è valido oggi come allora e lo rimarrà a lungo. Le superpotenze hanno arsenali di misura planetaria. Pure piccoli Stati (come di recente l'Etiopia) minacciano in tempi di crisi di ricorrer alla Mobilitazione Totale. Il concetto è entrato nella politica, sia nelle polemiche sia nei fatti. Tutti si armano, e ciascuno lo rinfaccia all'altro. È concepito come un circolo vizioso, e al contempo celebrato con parate.

Evidentemente a suo tempo colsi un che di essenziale. Esibir il nucleo vuole porre in luce quell'intuizione. Al cospetto di essa la situazione specifica del periodo fra le due guerre mondiali diviene accessoria, e così il punto di vista dell'autore, un giovane tedesco dopo quattro anni di fatica mortale e dopo il Trattato di Versailles. (Ciò non muta il significato storico di quella situazione; e per quest'ultimo resta valida la prima versione).

23 agosto 1980



Ultima modifica 2021.03.02