[Archivio Luciano di Samosata]
«Luciano ama, si sa, “la libertà intrinseca al favoleggiare” (Ver. hist., I, 4), ma vuole che chi ascolta o legge sappia che a un racconto di cose non vere, ossia — come egli crudamente le definisce — di menzogne, non deve credere; se invece a queste menzogne qualcuno crede, quasi fossero verità, allora si sdegna e la sua mordacità si scatena contro chi favoleggia, senza avvertire che mente, e chi lo ascolta credulo, così come è pronta ad assalire tutti quelli che truffano e tutti quelli che si lasciano truffare. Spiegabile è in questo modo lo spirito aggressivo di Tichiade (il portavoce dell'A.) nei riguardi degli altri interlocutori di questo dialogo, che egli riferisce, alla maniera di Platone, appena uscito o, meglio, fuggito dalla casa di Eucrate — lo stesso Eucrate de “Il sogno o il gallo”, parr. 8-12 (vol. II) —, dove la conversazione era cominciata e non si era ancora conclusa. Lo ascolta l'amico Filocle, col quale si chiede sùbito perché molti mentono senza ragione alcuna. I fatti «menzogneri» che i varii personaggi del dialogo, alcuni dei quali rappresentano una importante scuola filosofica, si alternano nel raccontare, credendoci e aspettandosi che ci creda anche Tichiade, sono episodii di spiritismo e di magia. Noi ora, per la verità, li leggiamo con grande interesse collocandoli fra le molte altre testimonianze provenienti dall'antichità classica di fenomeni, che attualmente sono studiati da quella scienza non esatta, ma scienza, chiamata parapsicologia. Ma anche Luciano sapeva benissimo che fantasmi e stregonerie (chi non ha mai sentito parlare, fra queste, del caso dell'“apprendista stregone”?) attiravano in un modo o nell'altro l'attenzione di tutti, e narra da par suo, molto bene, i diversi episodii che mette in bocca ai vani Eucrate e Cleodemo. Doppio è pertanto — come è già stato osservato — il risultato ottenuto dall'A.: da una parte ha suscitato, e continua a suscitare, una quasi morbosa attenzione in tutti i suoi lettori, dall'altra ha ribadito il suo secco rifiuto, d'ordine morale, di quanto si legga o si scriva e non sia rigorosamente documentato nella sua realtà effettiva o la ragione sia incapace di spiegare.
Lo scritto, fra i più vivaci ed attraenti del Nostro, dovrebbe appartenere a un anno intermedio fra il 165 e il 17o d.C., al felice periodo, dunque, che diciamo ateniese». [Vincenzo Longo in Luciano: Dialoghi, vol. III, UTET, Torino, 1993, p. 217].
Versione di Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020, in occasione dell'infodemia coronavirale accompagnata dalla #broomstickchallenge.
TICHIADE1. Sai, oh Filocle, cosa susciti in tanti un desiderio di mentire tale da godere di non dir alcunché di vero o nel dare retta a chi dica assurdità?
FILOCLE. Molte cose convenienti ad uno scopo, oh Tichiade, inducono gli uomini a mentire.
TICHIADE. Ciò non c'azzecca2, come si suol dire. Io non chiedo di chi menta per suo utile: ciò è scusabile; anzi, lode a chi inganni i nemici o si salvi con tale rimedio da un pericolo. Spesso lo fece Ulisse per «portar a casa la pelle e i compagni» [Odissea I, 5]. Bensì io chiedo di chi, senza alcuna utilità, preferisca la bugia alla verità, provando piacere, e ci trascorra il tempo senza uopo.
FILOCLE. Chi mai ha una passione congenita per la bugia?
TICHIADE. Invero tanti!
FILOCLE. Cosa può essere se non follia la cagione di mentire-per-il-peggio anziché per il meglio?
TICHIADE. Non è follia, potendo provare che riguarda uomini sani e di intelletto superiore, così presi da tale vizio e così PATITI DELLA MENZOGNA, da ricrescermi se persone così insigni godano ad ingannare sé ed altri. Sai meglio di me che antichi nomi illustri (come Erodoto, e Ctesia di Cnido3, e prima di essi i poeti, incluso Omero) hanno scritto bugie, ingannando i coevi4 nonché tramandando quelle bugie fino a noi, conservate in bellissimi versi. Spesso mi vergogno di loro quando narrano dell'evirazione di Urano, delle catene di Prometeo, della gigantomachia, e di tutte le tragedie in Ade; e come Zeus per amore si fece toro o cigno5; come una donna fu mutata in uccello, Callisto in orsa; e poi di Pegasi, Chimere, Gorgoni, Ciclopi6, ed altre storie strane e prodigiose da irretire chi abbia ancora paura di Mormo e Lamia7.
Passino i poeti; ma come può essere che Paesi e popoli interi dicano bugie pubbliche, anzi ufficiali? I Cretesi non hanno onta di esibire la tomba di Zeus8; gli Ateniesi dicono che Erittonio sbucò della terra, e che i primi uomini spuntarono dalle zolle dell'Attica, come civaie9. Sempre meglio delle storie dei Tebani che i primi uomini sbocciarono dai denti seminati d'un serpente10. E a chi non credesse che tali assurdità son vere (ed esaminandole credesse che solo un Corèbo o un Margite11 può credere che Trittolemo cavalcasse draghi volanti12, che Pan venne d'Arcadia per combattere con gli Ateniesi a Maratona13, che Orizia fu rapita da Borea14) subito danno dell'empio e sciocco, ché non presta fede a cose così evidenti e vere. Tanto domina la bugia!
FILOCLE. Ma i poeti, oh Tichiade, e le città sono scusabili: i poeti miscelano nei loro scritti il piacere attraente del mito (utile per accattivarsi il pubblico); e gli Ateniesi, i Tebani e altri popoli nobilitano le loro patrie in tal guisa. Se si levassero di Grecia tali favole, le guide morrebbero di fame: manco gratis i forestieri vorrebbero udir il vero. Ma chi senza un motivo simile godesse della bugia sarebbe ludibrioso.
TICHIADE. Sì. Ed io vengo ora da quel valentuomo di Eucrate, dove ho udito incredibili storie favolose; anzi, donde sono fuggito, ché non ne potevo più, come scacciato dalle Furie a suon di prodigi e stupori15.
FILOCLE. Ma Eucrate è fededegno: è inverosimile che un sessantenne colla classica barba filosofica tolleri che uno menta al suo cospetto, o che menta lui stesso.
TICHIADE. Tu non sai, amico mio, quante ne ha dette, come le provava perlopiù giurando sui suoi figli16! Tant'è che non sapevo cosa pensare: se fosse pazzo o fuori di sé, o se io non mi fossi accorto ch'ei è sempre stato un impostore, una scimmia vestita d'una pelle leonina. Sì grosse le sparava!
FILOCLE. Oddea17, cosa ha detto, oh Tichiade? Voglio sapere qual impostore cela la barba.
TICHIADE. Oh Filocle, frequentarlo era mia abitudine, ma oggi era Leontico che volevo incontrare (sai, quel mio amico). Ed avendo udito dal suo schiavo che all'alba era andato a visitar Eucrate egro, io andai da costui per stare con Leontico e per vedere l'altro (che non sapevo fosse egro). Lì non trovai Leontico (era appena andato via, mi dissero) bensì tanta gente, fra cui: il peripatetico Cleodemo, lo stoico Dinomaco, e quel Ione che delle dottrine di Platone pretende di essere il solo ad averle capite e a poterle spiegar agli altri18. Vedi che uomini ti dico, sapientissimi e virtuosi, il fiore di ogni scuola, che mettono soggezione a vederli. E c'era pure il medico Antigono, forse chiamato per la malattia. Eucrate pareva già stare meglio: la sua era una malattia cronica: gli si erano di nuovo enfiati i piedi. Eucrate mi invitò a sedergli vicino sul letto, facendo una voce da malato al vedermi, mentre entrando io l'avevo udito gridare ed agitarsi. Ed io (attento a non toccargli i piedi) feci le scuse di rito (non sapevo del suo male e, saputolo, mi ero precipitato), e gli sedetti vicino.
L'argomento era la malattia, ed ancora se ne parlava, ciascuno suggerendo cure. Cleodemo fa:
«Se con la mano sinistra si alza di terra un dente di toporagno ucciso come dicevo prima, e lo si fissa alla pelle leonina appena conciata da avvolgere alle gambe, subito cessa il dolore».
Rispose Dinomaco:
«Non in pelle di leone, so io, bensì di cerva vergine. Così è verisimile: la cerva è veloce, ed ha tutta la sua forza nelle zampe. Il leone è sì forte, il suo grasso, la zampa destra, e i peli ritti della criniera, hanno speciali poteri se uno li usa con certe formule magiche, ma non sono indicati contro la gotta».
Replicò Cleodemo:
«Lo credevo pure io, perché la cerva è veloce, sennonché tempo fa un dotto Libico mi ha corretto, dicendo che i leoni sono più veloci delle cerve: “se le cacciano le pigliano”».
I presenti concordarono col Libico. Ma io dissi:
«Credete voi che il dolore cessi per incantesimi, o per rimedii esterni, mentre il male è dentro?».
Risero alle mie parole, compatendomi come sommo ignorante, ché non sapevo cose così lampanti, e che nessuna persona assennata direbbe che non sono così. Eppure compiaciuto della mia risposta pareva il medico Antigono, trascurato perché voleva curare Eucrate con la scienza medica, prescrivendogli di non bere vino, mangiare verdura, e non strafare. Ma Cleodemo con un sorrisino:
«Che dici, oh Tichiade? Ti pare assurdo che cose simili aiutino contro le malattie?».
Ed io:
«Oh, sì. Sarei un moccioso a creder che cose esterne (con nulla in comune con le cause interne delle malattie, uniti a certe paroline e messinscene, come voi dite) procurino la guarigione da sé. Ciò è impossibile, pure avvolgendo sedici toporagni nella pelle del leone di Nemea19. Anzi, ho visto il leone zoppicare per il dolore con tutta la sua pelle addosso».
E Dinomaco:
«Sei uno sciocco se hai trascurato di apprendere cotali rimedii per guarire le malattie; e suppongo neppure ammetterai che si scacci la febbre periodica, che si incanti l'herpes, che si sanino gli ascessi, e quant'altro facciano pure le vecchiette. Poiché ciò accade, perché non credi a ciò che si diceva, dalle cause simili?».
Dissi:
«Piano alle conclusioni, oh Dinomaco; e non cacciar il chiodo col chiodo20, come si dice. Neppure ciò che tu dici accada è provato che accada per tali cause. Se non provi prima col ragionamento che accada secondo natura che la febbre o il gonfiore temano un nome sacro o una frase straniera, e che per tale timore l'anguinaia sparisca, i tuoi discorsi restano fole di vecchiette».
E Dinomaco:
«Se parli così, forse neppure crederai agli dèi, se credi impossibili le guarigioni mercé nomi sacri».
Risposi:
«Bada, mio caro, l'esistenza degli dèi non toglie queste cose siano false. Io venero gli dèi, e vedo quanto bene facciano agli ammalati, risanandoli coi farmaci e con la medicina. Asclepio stesso ed i suoi figli curavano gli ammalati con farmaci benigni21, non avvolgendoli con leoni e con topiragni».
Intervenne Ione:
«Lascia perdere. Vi narro io un fatto grandioso. Ero ancor fanciullo (forse quattordicenne) quando uno venne a dire a mio padre che il nostro vignaiolo Mida (servo indefesso) all'ora di punta era stato morso da una vipera, e giaceva a terra con una gamba già inciprignita. Mentre legava i tralci intorno ai pali, la serpe gli si avvicinò, lo morse all'alluce, e subito si rintanò. E quel poveretto gridava dal dolore. Udito ciò, vediamo Mida portato dai conservi in barella, tutto gonfio e livido, e pareva inciprignito, e respirava appena. Mio padre ne era afflitto, ma un amico lì presente disse: “Coraggio, vo a cercar un Babilonese di quelli detti Caldei22, che lo guarirà”. Alla fine venne il Babilonese e risanò Mida scacciandogli tutto il veleno dal corpo con un incantesimo e mettendogli al piede una pietra tolta dalla tomba di una vergine. Di più. Mida spesso ripose la barella su cui stava e tornò nei campi: tanto potente fu quell'incantesimo e di quella pietra tombale».
«Quel mago fece altre cose prodigiose. Ito all'alba nei campi, pronunciò sette parole da un antico libro, poi purificò il luogo per tre volte con zolfo ed una face, facendo uscire tutti i rettili in quel perimetro. Come attirati da quell'incantesimo giunsero serpenti, aspidi, vipere, ceraste, aconzie, fisali. Mancava solo un drago23 (incapace di trascinarsi per la vecchiaia). Il mago disse che non erano tutti presenti, e scelto il più giovane serpentello, lo invio ambasciatore al drago, e poco dopo venne pure lui. Appena tutti presenti, il Babilonese li incenerì con un soffio, fra lo stupore generale».
Chiesi:
«Dimmi, oh Ione, il vecchio drago venne per mano a quel serpentello ambasciatore o appoggiato ad un bastone?».
Disse Cleodemo:
«Tu scherzi. Io ero più scettico di te su queste cose, una volta, pensando che fossero impossibili; ma dopo lunga resistenza fui vinto quando vidi volare uno straniero (proveniente dal paese degl'Iperborei24). Cosa potevo fare vedendolo volare in pieno giorno, camminare sull'acqua, attraversare il fuoco lentamente come una passeggiata?».
Ed io:
«Tu hai visto l'Iperboreo volare, e camminare su l'acqua?».
Rispose:
«Sì. Con ai piedi le carbatine tipiche dei conterranei. E ciò è nulla: ei addirittura ispirava amore, evocava demoni, risuscitava i morti già decomposti, tirava fuori Ecate dall'Ade25, faceva scender la luna in terra».
«Io vi narrerò ciò che gli vidi fare in casa di Glaucia, figlio di Alessicle. Morto il padre, Glaucia ne fu unico erede, e s'innamorò di Criside, moglie di Demeneto. Io ero suo maestro in filosofia e, se quell'amore non l'avesse sviato, ora saprebbe tutto Aristotele dacché a 18 anni sapeva già fare teoremi26 e tutta la fisica. Ma, non scampando da tale amore, si rivolse a me (al suo maestro, come è naturale) che gli portai in casa quel mago iperboreo (al prezzo di 4 mine anticipate pei sacrifici, e altre 16 in caso di successo). Il mago attese la luna piena (sotto cui le magie riescono meglio), scavò una fossa nel punto scoperto di casa, e a mezzanotte ci evocò Alessicle (il padre di Glaucia, morto sette mesi prima). Il vecchio era scontento e irritato per questo amore, ma alla fine accondiscese. Al che tirò su dall'Ade Ecate con al guinzaglio Cerbero, e tirò giù la luna, che ci apparve in molte forme diverse (prima di donna, poi di bellissima giovenca, poi di cane). Infine l'Iperboreo fece un amorino di creta e gli disse: “Va' e portaci Criside”. L'amorino di creta volò: poco dopo ecco la giovane bussar alla porta. Entrata abbracciò Glaucia da innamorata pazza, e restò con lui fino al canto dei galli. Al che la luna risalì in cielo, Ecate riscese sotterra, tutte le visioni sparirono, e noi riportammo a casa Criside».
«Pure tu crederesti alla magia, oh Tichiade, se avessi visto queste cose».
Dissi:
«Già, se le vedessi. Intanto perdonatemi se non ho visto come voi. Sennonché conosco Criside, donna facile, da non veder il bisogno d'un mezzano di creta, un mago iperboreo, nonché la luna, ché con sole 20 dracme puoi portarla fino agl'Iperborei. I fantasmi fuggono al tintinnio metallico (come dite voi); invece la donna27 accorre al tintinnio dei soldi. Poi mi stupisce il mago: anziché farsi amare dalle ricche donne (con sonanti talenti), per 4 misere mine fa amare Glaucia».
Disse Ione:
«Ti copri di ridicolo a nulla credere. Ti chiederei allora: cosa pensi di quelli che liberano gli indemoniati, esorcizzando le loro presenze in pubblico. Non lo dico io: tutti conoscono Siro di Palestina28, esperto di ciò, e quanti malati di epilessia (con gli occhi rivoltati e la bocca schiumosa) abbia ricoverato e dimessi sani di mente, a pagamento. Quando si accosta loro a chieder come il demone sia entrato nel corpo, è il demone a rispondere in greco o in barbaro come e donde sia entrato in quella persona. Al che Siro scaccia il demone coi nomi di dèi, e, se non ubbidisce, con minacce. Io stesso ne vidi uscir uno di un fumo nero».
Dissi:
«Capirai, oh Ione; tu vedi pure le idee29 di Platone (tuo maestro), sbiadite per noi occhi offuscati30».
Disse Eucrate:
«Mica solo Ione vede i demoni. Tanti altri ci si imbattono di giorno e di notte. Io stesso migliaia di volte. All'inizio fui sconvolto, finché da un Arabo mi sono munito di un anello (fatto del ferro di obbrobriose croci) e di un lungo incantesimo31 . O dubiti pure di me, oh Tichiade».
Dissi:
«Come potrei non credere ad Eucrate figlio di Dinone, uomo sapiente, che in casa sua parla libero da condizionamenti?».
Disse Eucrate:
«Chiunque viva qui può narrar della statua che di notte appare a tutti di casa (schiavi, giovani e vecchi)».
Chiesi:
«Quale statua?».
Ed egli:
«Non hai visto entrando una bellissima statua eretta in cortile, opera dello scultore Demetrio32 ?».
Disse Eucrate:
«Intendi il discobolo in posa di lancio, piegato di lato per dare più forza, che mira la mano dietro col disco?».
Rispose:
«Non quello (opera di Mirone), né la statua accanto (il Diadumeno di Policleto33). Ignora le statue alla destra di chi entra (fra cui i tirannicidi fatti da Critio e Nesiote34): presso l'acqua corrente, c'è la statua di quel panciuto, calvo, mezzo nudo e mezzo coperto dal mantello, con poca barba che pare mossa dal vento, con le vene ben in evidenza, che pare proprio un uomo vivo. Ebbene: credo sia Pellico, lo stratego corinzio35 ».
Dissi:
«Sì, oddio, ne ho vista una, con fasce e corone secche, e il petto coperto di lamine d'oro».
Ed Eucrate:
«L'ho coperta io così, quando mi guarì d'una febbre terzana che mi consumava».
Ed io:
«Lo stratego è pure medico?».
Rispose Eucrate:
«Oh sì. E se lo deridi sa vendicarsi. So cosa può far tale statua. Oh, non credi che chi sappia far andar via le febbri possa farle venire?».
Ed io:
«Che la statua sia con noi, se tanto potente essa è. Ma cosa la vedete fare voi di casa?».
Iniziò:
«Di notte scende dal suo piedistallo, gira per casa, e tutti lo incontrano; talvolta canta, e mai ha aggredito alcuno: finché ci si scansa, passa senza infastidire chi la veda. Spesso si lava e gioca con l'acqua tutta la notte, che ne sentiamo lo scroscio».
Risposi:
«Bada che, anziché Pellico, tale statua sia il cretese Talo, servo di Minosse, la cui statua bronzea girava per Creta36. La tua statua, oh Eucrate, è lignea anziché bronzea, ma ciò non impedisce che, anziché opera di Demetrio, sia un'invenzione di Dedalo: pure le sue scendevano dal loro piedistallo, come tu dici della tua37 ».
«Bada, oh Tichiade, a non doverti pentir del tuo scherno. Io so cosa patì uno che gli rubò le monete che gli offriamo ogni primo dì di mese».
Disse Ione:
«Un che di tremendo, essendo un sacrilego. Cosa accade, oh Eucrate? Vorrei saperlo, benché Tichiade resterà scettico».
Riprese Eucrate:
«Molti oboli38 e alcune monete d'argento e piastre d'argento (tutte offerte votive di da chi essa guarì dalla febbre) le erano fissate con cera ai piedi e alle gambe. Avevamo un servo Libico che ci faceva da stalliere, che una notte progettò di derubarci appena la statua fosse discesa, e lo fece. Odi cosa ordì Pellico, accortosi al ritorno del furto, per far cogliere in flagrante il Libico. Il cortile si fece inestricabile labirinto, dove il sacrilego girò tutta la notte finché di giorno fu trovato con la refurtiva. Catturato, fu tanto frustato e non visse molto: ogni mattino aveva lividi sul corpo perché, diceva, Pellico lo frustava ogni notte, finché morì come meritava. Ora, oh Tichiade, prova a ridere di Pellico e a dire che sclero come un coetaneo di Minosse».
Dissi:
«Oh Eucrate, finché il bronzo è bronzo, e l'artefice è Demetrio d'Alopeca (che plasma statue, non dèi), mai temerò la statua di Pellico, né Pellico in persona se mi minacciasse».
Al che il medico Antigono disse:
«Pure io, oh Eucrate, ho un Ippocrate bronzeo39, alto un cubito, il quale, a luci spente, gira per casa, fa rumore, rovescia i vasi, mescola i farmaci, specie se scordiamo il sacrificio che sogliamo fargli ogni anno».
Dissi:
«Pure Ippocrate, che fu mortale, vuole sacrifici, e si sdegna se a tempo debito non si onora con vittime perfette? Eppure dovrebbe accontentarsi di qualche libazione funebre, con latte e miele, o di fiori sul capo».
Disse Eucrate:
«Odi allora cosa vidi 5 anni fa, e ne ho testimoni. Era tempo di vendemmia, e verso mezzodì lasciai i vendemmiatori e andai da solo nel bosco, preso da chissà quali pensieri. Inoltratomi, udii dapprima una canea (pensai a mio figlio Mnasone, solito darsi alla caccia con gli amici nel fitto bosco). Ma non era così. Poco dopo, accompagnata da un terremoto rombo di tuono, ecco avvicinarmisi una terribile donna di 90m, con una face nella mano sinistra, e nella sinistra una spada lunga 10m: sotto aveva serpenti per piedi, e sopra le truci fattezze di una gòrgone: anziché capelli aveva serpi che le scendevano come riccioli, ed alcune si attorcevano sugli omeri. Vedete, oh amici, che brividi mi vengono a narrarvelo?».
Così dicendo Eucrate ci mostrava la pelle d'oca: Ione, Dinomaco, e Cleodemo stavano a bocca aperta (stupiti vecchi menati pel naso), quasi da gettarsi ai piedi della donna di 90m, spauracchio colossale. Intanto io pensavo che sono questi uomini a insegnare la sapienza ai giovani e a godere del rispetto generale! Diversi dai bimbi solo per la canizie e la barba: per il resto più pronti dei bimbi a farsi turlupinare dalle bugie.
Per esempio, Dinomaco chiese:
«Dimmi, oh Eucrate, i cani della dea quant'erano grandi?».
E Eucrate:
«Più degli elefanti indiani, neri, col pelo folto, grosso, lurido. A quella vista girai verso l'interno del dito la gemma dell'anello datomi dall'Arabo, ed Ecate batté il suolo col serpentesco piè, dove si aprì voragine vasta quanto il Tartaro, e vi saltò. Ripreso vigore, mi sporsi su quell'abisso tenendomi ad un ramo per non cader in caso di vertigini: vidi l'Ade, il Piriflegetonte, la Stigia, Cerbero, e i morti (così bene da riconoscerne alcuni, come mio padre nelle stesse vesti con cui fu sepolto)».
Chiese Ione:
«Cosa facevano le anime, oh Eucrate?».
Rispose:
«Ragionavano con amici e parenti sdraiati sul prato asfodelo40, suddivisi per tribù e fratrie41».
E Ione:
«Dannati epicurei a non creder alla dottrina platonica dell'immortalità dell'anima. Ma Socrate e Platone li vedesti fra i morti?».
Rispose:
«Vidi uno panciuto e calvo che poteva essere Socrate; ma non ho riconosciuto Platone (agli amici va detta la verità). Avuto appena il tempo di vedere, la voragine si richiudeva; ma prima che fosse richiusa giunsero alcuni dei miei servi venuti a cercarmi, fra cui Pirria qui presente. Non è vero, Pirria?».
Pirria confermò:
«Sì, oddio. Udii latrati da quell'abisso, e vidi un fuoco come d'una face».
Io risi del testimone che di suo aggiunse i latrati e il fuoco.
E Cleodemo:
«Non sono insolite queste visioni. Pure io, a letto egro, ne ebbi una simile. Mi seguiva e curava il nostro Antigono. Il settimo giorno la febbre era altissima. Tutti mi avevano lasciato solo e, chiusa la porta, aspettavano fuori: così avevi ordinato, Antigono, se mai potessi prender sonno. Ma ero vigile quando un bellissimo giovane biancovestito mi fece alzar e mi guidò per un'apertura: capii d'esser in Ade perché riconobbi Tantalo, Titio, Sisifo. Inutile dilungarsi. Mi portò al tribunale: c'erano Eaco, e Caronte, e le Parche42, e le Erinni. Uno assai regale (forse Plutone) si sedette, e fece l'appello di chi dovesse comparire, scaduti i termini della vita. Il giovane mi presentò, ma Plutone si adirò e urlò al duce mio: “Non sono finiti giorni di costui: vada via. Portami invece il fabbro Demilo, sta vivendo oltre il suo fuso”43. Io volentieri torno su. Sfebbrato, dico a tutti che sarebbe morto Demilo, nostro vicino, egro pure lui a quanto mi riferivano. Poco dopo udimmo i lamenti di chi ne piangeva la morte».
Antigono disse:
«Che c'è di strabiliante? Io conosco uno resuscitato 20 giorni dopo la sepoltura. L'ho in cura io da prima della morte e da dopo la resurrezione».
Dissi:
«Come ha fatto il corpo non marcire in 20 giorni o almeno dissolversi senza nutrimento, salvo avessi in cura un altro Epimenide44?».
Mentre così si discorreva tornarono i figli di Eucrate dalla palestra (uno maggiorenne45, l'altro quindicenne); e salutati tutti noi, si sedettero sul letto vicino al padre; e a me portarono una sedia. E vedendo i figli Eucrate ricordò qualcosa, posò sovr'essi la mano e disse:
«Possa ricever da questi figli tanto bene quanto è vero cosa ti dirò, oh Tichiade. Tutti sanno quanto amai la mia beata sposa, la loro madre; e l'ho esibito con quanto feci per lei da viva nonché da morta, bruciando con lei tutti i suoi beni e il suo abito preferito. Sette giorni dopo la sua morte stavo qui sul letto, a consolarmi del mio dolore leggendo mentalmente46 il Fedone di Platone. Ed ecco Demeneta sedermisi accanto, come fa ora Eucratide».
Ed indicò il figlio minore, già pallido dall'inizio del racconto, che rabbrividì (logico per un ragazzino). Eucrate riprese:
«Come la vidi, l'abbracciai piangendo e gemendo; ma ea mi zittì e accusò di non aver bruciato uno dei sandali ricamati d'oro, scivolato (precisò) sotto l'armadio. Non trovandolo, ne avevamo bruciato uno solo. Mentre parlavamo ancora, un maledetto cagnolino maltese abbaiò da sotto il letto, ed a quei latrati ea sparì. Comunque il sandalo fu trovato sotto l'armadio e bruciato.
«Osi ancora, oh Tichiade, non credere a visioni così chiare e frequenti?».
Risposi:
«Oddio. Gli increduli impudenti di fronte la verità meriterebbero una sculacciata come bambini, con il sandalo ricamato in oro».
Al che arrivò il pitagorico Arignoto, dalla lunga chioma e dall'aspetto venerando (sai, detto sacro per la sua sapienza). Come lo vidi feci un sospiro di sollievo, convinto che avrebbe sbufalato tutti. Mi dicevo: “Questo sapiente taccerà tali contafrottole!”. Insomma lo credevo un deus ex machina calato giù dalla sorte47. Cleodemo gli cedette il posto e lui chiese della malattia. Udito che Eucrate stava meglio, chiese:
«Di cosa ragionavate? Parvemi di udir entrando l'impostazione di un discorso».
Eucrate rispose additandomi:
«Volevamo convincer quest'uomo adamantino, che esistono demoni, fantasmi e che le anime dei morti vagano sulla terra, palesandosi a chi vogliono».
Io arrossii e abbassai gli occhi per rispetto d'Arignoto, il quale disse:
«Magari Tichiade afferma solo che le anime dei morti ammazzati vagano sulla terra (impiccati, decapitati, crocifissi, o altri trapassati male), ma i morti per cause naturali no. Ciò non sarebbe da respingere».
Rispose Dinomaco:
«Oddio, crede che quei fenomeni non accadino».
Arignoto sbottò guardandomi torvo:
«Cosa? Non credi a quanto praticamente tutti possono testimoniare?».
Risposi:
«Difendimi almeno tu: io non credo perché non vedo. Se vedessi, crederei come voi».
Disse lui:
«Ma se vai a Corinto, chiedi dov'è la casa di Euribatide vicina al Craneo48, poi vacci e chiedi al portinaio Tibio di veder dove il pitagorico Arignoto scavò una fossa e scacciò il demone, rendendo abitabile la casa.
Chiese Eucrate:
«Che storia è, oh Arignoto?».
Rispose:
«Da tempo quella casa era deserta per infestazione. Chi tentava di stabilirvisi scappava inseguito da un terribile spettro. Ormai l'edificio era cadente, il tetto crollato, e nimo osava entrarci. Ma udito ciò, presi i miei libri sull'argomento (perlopiù egizi) e di notte entrai in casa: il mio anfitrione era contro, ma non mi coercì. Entrai solo, con un lume in mano, e, postolo nella stanza più grande, mi misi a legger per terra. Ed ecco apparirmi il demone, brutto, con lunghi capelli e più nero della notte, aspettandosi di farmi paura come agli altri. Tenta di assalirmi per ogni verso per vincermi, via via trasformandosi in cane, toro, leone. Ma io ricorsi alla massima scongiurazione, in lingua egizia, relegandolo in un angolo dello stanzone. Vidi dove sprofondò, e pel resto della notte dormii. L'indomani, mentre tutti disperavano di trovarmi morto come gli altri, uscii fra lo stupore generale e andai da Euribatide a dirgli che la casa era purificata e abitabile senza paure. E lo portai (con molti altri accodatisi per lo stupore) nel punto in cui vidi inabissarsi il demone. Lì feci scavar con zappe e picconi, trovando a circa sei piedi ossa umane, cui diedi degna sepoltura. La casa fu disinfestata».
Finito il racconto, ogni presente mi diede del pazzo a non credere cose confermate addirittura da Arignoto (uomo dalla sapienza divina). Ma io, senza temer le sue chioma e fama, dissi
«Come, oh Arignoto, pure tu, unica speranza verità, spacci fumo ed ombra? Sei come il proverbio: il tesoro si rivela carbone».
Arignoto rispose:
«Se tu non credi a me, né a Dinomaco, né a Cleodemo, né ad Eucrate, chi di contrario alle nostre opinioni ritieni più fededegno?».
Ed io:
«Sì, oddio: il famoso Democrito d'Abdera, così negatore del paranormale da chiudersi in un sepolcro fuori le porte della città a scrivere giorno e notte. Alcuni giovani, per mettergli paura, si travestirono da morti (con vesti nere e con maschere di teschi), lo circondarono danzando a ritmo serrato. Ei non si turbò a quella messinscena e seguitò a scriver senza manco guardarli. Disse solo: “Basta scherzare”. Così tanto credeva che l'anima non sopravviva al corpo49».
Rispose Eucrate:
«Ciò che tu dici prova che Democrito era uno stolto se la pensava così».
«Vi narrerò un altro caso capitato a me, non riportato da altri, di cui forse pure tu, oh Tichiade, riconoscerai la veridicità. Da giovane vivevo in Egitto (colà mio padre mi fece studiare). Ebbi voglia di risalir il Nilo fino a Copto, e di lì andar alla statua di Memnone50, per udire lo straordinario suono che fa al sorger del sole. Ma anziché fare il solito suono inarticolato, Memnone mosse la bocca e pronunciò un oracolo di sette parole (inutile stare a ripetervelo)».
«Rinavigando il fiume ebbi compagno un sacro scriba del tempio di Menfi, mirabile per sapienza, e dotto in tutta la cultura egiziana. Dicevano che avesse abitato 23 anni negli aditi sottoterra, e appreso la magia da Iside51».
Arignoto disse:
«È il mio maestro, Pancrate52: un sacerdote, sempre rasato, pensoso, parlante il greco con accento straniero, altissimo, col naso camuso, le labbra sporgenti, le gambe sottili».
Rispose:
«Proprio lui, Pancrate. All'inizio ignoravo chi fosse; ma poi lo vidi, ad ogni approdo, fare prodigi, cavalcar e nuotare coi coccodrilli che gli scodinzolavano, e capì che era un uomo superiore. A suon di gentilezze divenni suo amico, tanto intimo che mi confidò tutti i suoi segreti. Infine mi convinse a lasciare tutti i miei servi a Menfi, e ad andare solo con lui, dicendomi che non ci sarebbero mancati servi. Infatti ecco come vivemmo».
«Ogni volta che giungevamo in una locanda, serrava la porta, prendeva una scopa o un pestello, lo ricopriva col mantello, e con una formula magica lo faceva camminare e apparire umano agli occhi di tutti gli altri. E quello andava ad attingere l'acqua, cucinava, rassettava, cioè faceva benissimo i compiti di schiavo. Allorché non ne servissero più i servigi, Pancrate con un'altra formula ritrasformava la scopa in scopa, e pestello in pestello. Questo era il solo segreto di cui lui fosse geloso, che invano mi sforzavo di farmi rivelare. Ma un giorno origliai di nascosto la parola magica (aveva tre sillabe). Ei impartì gli ordini al pestello e uscì in piazza».
«L'indomani, con lui fuori a curare i suoi affari, io presi il pestello, lo avvolgo, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare acqua. Esso riempì e mi portò un'anfora. Dissi: “Basta, non portarne più, e torna ad esser pestello”. Ma esso non voleva più ubbidirmi, e seguitò a portar acqua fino ad allagar la casa. Non sapendo che fare (temevo che Pancrate si adirasse al ritorno, come fece) presi un'ascia e spaccai il pestello in due; ma ciascun pezzo prese un'anfora e portò acqua: i servi divennero due. Finché giunse Pancrate, che capì al volo, fece tornare i pestelli come prima dell'incantesimo: e poi pure lui sparì nel nulla, abbandonandomi».
Dinomaco disse:
«Sai ancora mutare un pestello in uomo?».
Ei rispose:
«Purché sia forato! Ché non saprei farlo tornare come era, e una volta spedito per acqua allagherebbe la casa».
Dissi:
«Ma che figura fate alla vostra età! Smettetela o almeno differite ad altro momento queste storie horror perché qui ci sono giovani e non sappiamo come si riempiano di terrori. Bisogna badare ai giovani! Non abituarli a udir cose il cui ricordo si conficchi nella mente, rendendoli timorosi di ogni rumore e pieni di superstizione».
Rispose Eucrate:
«A proposito di superstizione53. Cosa ne pensi, oh Tichiade, di oracoli, profezie, responsi divini (dati dagli invasati o che si odono uscire dai penetrali, o che la vergine sacerdotessa dice in versi)? Neppure a questi crederai? Non sto a dirti che ho un anello sacro con effigiato Apollo Pizio54, né che l'anello mi parla, per non parerti millantare cose incredibili. Ma non rinuncio a narrar ciò che udì a Mallo nel tempio d'Anfiloco55 (dove quell'eroe parlò meco e mi diede certi consigli) e ciò che vidi in Pergamo, e ciò che ho udito a Patara56. Tornando in patria dall'Egitto, udì che l'oracolo a Mallo era noto per veracità e chiarezza dei suoi responsi (ché rispondeva direttamente a domande scritte su tavolette consegnate al sacerdote). Io pensai di provarlo, consultando il dio sul futuro».
Mentre Eucrate parlava, capì dove stava per andare a parare con quel pippone57 su gli oracoli; e non parendomi il caso di ribatter da solo a tutti, lo lasciai che dall'Egitto salpò per la Mallo. Del resto capii che non ero gradito in quanto abile avversario. Così dissi:
«Vado a cercar Leontico, devo incontrarlo per una faccenda. Voi, che non vi bastano le esperienze umane, chiamate in aiuto gli dèi per contar favole!».
Così dicendo uscii: essi, lieti di tornar liberi, si pascevano di bugie fino a scoppiare.
Eccoti, caro Filocle, ciò che ho udito a casa d'Eucrate.
Ne sono uscito come se avessi bevuto mosto, ho lo stomaco gonfio e voglia di vomitare. Comprerei volentieri un farmaco che facesse dimenticare le cose udite: perché temo che serbarne memoria infine mi nuoccia. Già mi pare di vedere Ecate, demoni, e fantasmi.
FILOCLE. Pure a me, oh Tichiade, il tuo racconto fa lo stesso effetto. Dicono che chi è morso da un cane rabbioso (oltre a divenire smanioso e idrofobo), se morde un altr'uomo gli trasmette gli stessi effetti. Altrettanto, tu che in casa di Eucrate sei stato come morso da tante bugie, ora hai morso pure me, riempendomi l'anima di demoni.
TICHIADE. Coraggio, oh amico. Contro tale male c'è un farmaco infallibile: la verità e il buon senso. Contro «lo bene de lo intelletto» nessuna vana e sciocca menzogna può turbarci.
1. In Luciano, i nomi propri (almeno dei personaggi principali) hanno un significato pertinente alla natura o alla funzione di chi li porta. Qui Tichiade (letteralmente uomo del caso, Týchē) indica il carattere del protagonista (scettico, se non ateo), affatto non condizionato da credenze sul paranormale e soprannaturale. Insomma è libero. E Filocle indica: in cerca di gloria.↩
2. Letteralmente «non c'è alcun rapporto con le mie parole»: un'espressione proverbiale ricorrente in Luciano.↩
3. Ctesia di Cnido: storico del V secolo a.C. Secondo Luciano (Storia Vera) scrisse un'opera sui costumi degli Indi poco veridica e tendente al romanzesco.↩
4. Letteralmente «gli uditori del loro tempo»: il termine è storicamente giusto: al tempo la scrittura non corrispondeva a una comunità di leggenti: le opere si divulgavano con pubbliche letture.↩
5. Un toro per rapire Europa. Un cigno per unirsi con Leda.↩
6. Pegaso era il cavallo alato di Perseo. La chimera era un mostro con la testa leonina, il corpo caprino e la coda serpentesca. Le gòrgoni erano le figlie di Forco, il cui sguardo impietrava. I ciclopi (dall'unico occhio in fronte) hanno nel mito varie nature e funzioni. ↩
7. Mormo era solo uno spauracchio evocata per spaventare i bambini (con la stessa funzione oggi data all'orco o al lupo). Lamia appartiene alla mitologia, con tre figure così chiamate: usata per spaventar bambini era una di queste, la figlia di Belo (re di Egitto) amata da Zeus che (poiché Era le uccideva i figli avuti col dio) mutò in un mostro che si cibava di bambini.↩
8. In realtà i cretesi mostravano un sepolcro di Zeus Cretese, antichissimo re dell'isola, ucciso da un cinghiale come altri re entrati nel mito (più noto è Robert Baratheon). Da tale fatto partì Evemero di Messina, il mitografo razionalista del IV/III sec. a.C., per affermare (in: Hierà anagrafḕ) che gli dèi sono uomini divinizzati per le gesta di conquistatore e di evergete.↩
9. La popolazione attica pretendeva la propria autoctonia.↩
10. Sparti (letteralmente: seminati) fu il nome di uomini armati nati dai denti di un drago, seminati (!) da Cadmo, eroe tebano. Cinque superstiti generarono le più nobili famiglie tebane.↩
11. Corèbo e Margite erano nomi proverbiali per indicar la stupidità e la scemenza. Corèbo è ignoto. Margite era protagonista di un poema eroicomico a torto attribuito ad Omero.↩
12. Demetra ricompensò re Celeo (per averla ospitata durante la ricerca di Persefone), donando al figlio Trittolemo strumenti agricoli da far conoscere all'umanità e il carro trainato da draghi.↩
13. La leggenda dell'aiuto prestato da Pan agli Ateniesi a Maratona è ricordata anche da Erodoto (VI, 105), che in Storia Vera è trattato da Luciano alla stregua dei mentitori precedenti.↩
14. Borea (vento del Nord) rapì Oritia (figlia di Eritteo, di Atene), che divenne madre degli argonauti Calai e Zete.↩
15. Allusione scherzosa è alla persecuzione di Oreste matricida da parte delle Erinni (le furie persecutrici di chi uccida un familiare), tanto studiata da Bachofen.↩
16. Letteralmente «mettendo avanti i figli», riferendosi a quando un imputato, per impietosire la giuria, mostri i suoi figli (cosa che Socrate, nell'apologia platonica, dice di rifiutarsi di fare).↩
17. Letteralmente «per Estia». Invocare Estia (dea del focolare) serve a garantire l'amicizia con cui si fanno richieste. ↩
18. Compaiono rappresentanti di ognuna delle principali scuole filosofiche di età romana: la peripatetica (aristotelica); la platonica e la stoica. Manca la scuola epicurea, forse rappresentata da Tichiade stesso. Marco Aurelio, una volta salito al trono, aveva riaperto e sovvenzionato queste quattro scuole filosofiche, istituendo anche delle cattedre di filosofia.↩
19. Nemea è una valle dell'Argolide. Secondo il mito, era infestata da un terribile leone invulnerabile alle frecce, finché Eracle lo strangolò e dalla sua pelle ottenne una veste impenetrabile.↩
20. In greco “chiodo scaccia chiodo” (confondere il simile col simile) ha un significato diverso dall'italiano (una cosa vale l'altra).↩
21. I figli di Asclepio, Macaone e Podalirio, nell'Iliade sono i medici degli eroi achei. Zeus fulminò Asclepio perché resuscitava i morti (evento significativo per le teologie neopagane).↩
22. I maghi caldei, famosi nell’antichità, erano considerati inoltre gli esperti nell'arte divinatoria per antonomasia.↩
23. Aspide e ceraste appartengono alla famiglia delle vipere. Col morso di un aspide si uccise Cleopatra. Il ceraste è detto pure vipera cornuta, per protuberanze sulla testa simili a corni (keras). L'aconzio è un serpente della famiglia dei colubri, la cui etimologia è akontion (giavellotto), presente nei due nomi con cui il rettile è noto in italiano: iaculo e saettone. Il fisalo è forse un rospo che emette un soffio (physao); qui accostato ai rettili perché creduto velenoso. Drakon è usato in greco per un serpente di grandi dimensioni. ↩
24. Gli Iperborei (letteralmente “abitanti oltre Borea”) erano un popolo leggendario dell'estremo nord cui era attribuita tradizionalmente felicità e saggezza. ↩
25. La dea Trivia aveva tre personificazioni: Ecate (infernale), Artemide (terrestre), Selene (Luna celeste). Ecate, dea della magia, era evocata nei riti magici con cui si credeva si potesse far scendere la luna sulla terra con incantesimi. ↩
26. Letteralmente, nel linguaggio della logica sillogistica, riduceva le forme imperfette di sillogismo alla forma perfetta (la cosiddetta: forma in Barbara).↩
27. Luciano intende la donna in questione oppure la donna in generale? ↩
28. C'è un'allusione a Gesù (per la descrizione della guarigione degli ossessi e il particolare delle invocazioni agli dèi)? In Morte di Peregrino, 13, sophistēs allude proprio a Gesù. La presenza di uno spunto satirico anticristiano è suggerita pure dal camminare sulle acque [13] e dal giovane biancovestito [25] che pare un angelo anziché il tradizionale Hermes. [26] parla proprio di una resurrezione. Per stravolger le Scritture con la sua arte inventiva, Luciano doveva averne una diretta conoscenza, non troppo superficiale seppur faziosa. Luciano forse associava il Cristianesimo alla mistificazione religiosa molto in voga ai suoi tempi. ↩
29. Per Platone le Idee sono l'unica realtà trascendente, mentre l'universo è fatto di copie delle idee. Luciano indica altrove i fraintendimenti della teoria appo i lontani discepoli di Platone.↩
30. La vista offuscata allude direttamente alla catabasi (dal mondo intelligibile al mondo sensibile) nella seconda parte del mito della caverna di Platone (Repubblica, VII).↩
31. Letteralmente «dai molti nomi»: forse allude alla consuetudine di invocare la medesima divinità con più nomi o appellativi, allo scopo di aumentare la forza dell'invocazione stessa.↩
32. Demetrio di Alopece: scultore della prima metà del IV sec. a.C. Pare fosse rimproverato di amare la somiglianza più della bellezza col suo eccessivo realismo.↩
33. Il Discobolo di Mirone e il Diadumeno di Policleto sono le più famose statue dell'antichità. È un esempio di ecfrasi (descrizione di opere d'arte), cara ai sofisti.↩
34. I tirannicidi sono Armodio e Aristogitone, che nel 510 a.C. liberarono Atene dalla tirannia dei Pisistrati.↩
35. La strategia era la suprema carica militare dell'antica Grecia.↩
36. Talo era l'automa dalla testa taurina di Efesto che Zeus donò a Minosse: percorreva Creta esibendo le leggi di Minosse incise su tavole bronzee e scagliava pietre sulle navi straniere.↩
37. Dedalo ruppe il canone greco di modellare le statue con occhi chiusi, gambe serrate e braccia lungo il corpo (come le korai). E creò statue con gli occhi aperti, le gambe divaricate in atto di camminare, le braccia staccate dal corpo, ossia “animandole” (nel senso di infondere movimento, come in cartone animato). Da qui la leggenda che le statue di Dedalo scappassero dal piedistallo.↩
38. L'obolo valeva valore di un sesto di una dracma (una somma irrisoria). La dracma era l'unità monetaria greca. Cento dracme valevano una mina.↩
39. Ippocrate ebbe tale fama da valergli addirittura uno di quei culti minori che si tributava agli eroi, testimoniato da questa statua a cui offrire sacrifici. Culto disapprovato da Luciano.↩
40. Nell'Odissea, il prato asfodelo è dove in Ade vagano le anime dei morti. L'asfodelo è anche pianta del genere delle liliacee. Il motivo del duplice riferimento è ignoto già agli antichi.↩
41. La popolazione dell'Attica era ripartita in tribù, dieci in epoca classica, ai fini dei censimenti, delle prestazioni militari e dell'esazione dei tributi. Le suddivisioni delle tribù per stirpi erano le fratrie. Le suddivisioni delle tribù dal punto di vista territoriale erano i demi. ↩
42. Eaco è uno dei tre giudici infernali di origine mortale (con Minosse e Radamante). Caronte è il traghettatore dei morti sull'Acheronte. Le Parche (Clòto che fila, Làchesi che misura il filo e Àtropo che lo taglia) sono le dee del destino.↩
43. Le Parche filavano per ciascun essere umano il filo (néma), la cui lunghezza corrispondeva al tempo concesso da vivere a ognuno.↩
44. Epimenide era un mortale che da giovane dormì 57 anni senza invecchiare.↩
45. L'efebia era l'ingresso nella cittadinanza (ad Atene sui 18-20 anni), preceduto dall'esame dei requisiti (docimasia), dopo cui i giovani erano registrati nelle liste dei rispettivi demi.↩
46. Letteralmente «in silenzio», ma mentalmente sottolinea l'eccezione alla regola degli antichi di leggere ad alta voce pure in privato.↩
47. Deus ex machina: la divinità calata in scena dall'alto a teatro con una macchina, il cui intervento salvava una situazione altrimenti irrisolvibile, divenendo espressione proverbiale.↩
48. Il Craneo era il ginnasio di Corinto, frequentato abitualmente da Diogene il cinico.↩
49. Democrito è esaltato come oppositore alle scuole filosofiche rappresentate dagli altri interlocutori. È l'unico avversario mai affrontato nell'opera di Platone.↩
50. Memnone, figlio della dea Aurora partecipò alla guerra di Troia e fu ucciso da Achille. A Tebe, in Egitto, ci sono le colonne di Memnone (invero statue del faraone Amenhotep III); una di queste era concava con un buco nella bocca da cui al levar del sole l'aria calda passava sibilando e veniva interpretata come il saluto quotidiano dell'eroe alla madre Aurora.↩
51. Iside era la massima dea egizia, il cui culto si estese in tutto il bacino del Mediterraneo, arrivando fino a Roma nel I sec. a.C.↩
52. Pancrate letteralmente ha il significato di onnipotente (di nuovo pertinente alla natura del personaggio). ↩
53. In greco, deisidaimonia significa sia reverenza nei confronti degli dèi sia superstizione. ↩
54. Pizio è uno degli appellativi di Apollo, derivato forse da una delle sue imprese: l'uccisione di Pitone, un drago mostruoso, nato dal fango del diluvio, che devastava il territorio di Delfi.↩
55. Anfiloco, figlio di Anfiarao, fu uno dei sette contro Tebe. Famoso profeta, insieme con Mopso fondò santuari oracolari a Mallo (in Cilicia) e a Colofone (in Lidia).↩
56. Pergamo (in Misia) e Patara (in Licia) sono altre città dell'Asia Minore. A Pergamo c'era il tempio di Asclepio dove accorrevano i malati. A Patara c'era da ascoltare l'oracolo di Apollo.↩
57. Letteralmente «tragedia», riferito all'enfasi del racconto di Eucrate e soprattutto al carattere fittizio. La terminologia teatrale è una delle caratteristiche peculiari dello stile di Luciano. Alla critica della scienza oracolare Luciano si dedica in: Alessandro o falso profeta. ↩
[Archivio Luciano di Samosata]
Ultima modifica 2020.03.01